
La preghiera del mattino
Il tentativo di Draghi di impedire che la guerra continui fino all’ultimo ucraino

Su Fanpage si scrive: «Russia e Ucraina riprenderanno i colloqui da oggi 1 aprile, saranno online. Il capo della delegazione negoziale ucraina, David Arakhamia, ha affermato in un post online che l’Ucraina ha suggerito che i due paesi dovrebbero incontrarsi, ma che la Russia ha affermato che prima è necessario fare più lavoro su una bozza di trattato».
Si deve naturalmente distinguere tra aggrediti e aggressori, ma si deve anche tenacemente sostenere la ricerca di un accordo per sospendere le operazioni militari. Finché c’è trattativa, c’è speranza.
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Sul sito del Tgcom si scrive: «Le forze russe si stanno raggruppando e sono pronte a sferrare “possenti attacchi” contro il Donbass e il Sud dell’Ucraina, compresa Mariupol. È l’Sos lanciato dal presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, in un video rilasciato durante la notte. “Fa parte della loro tattica. Sappiamo che si allontanano dalle zone dove li stiamo battendo per concentrarsi su altre molto importanti… dove per noi può essere più difficile”, ha detto Zelensky».
L’esercito russo viene non di rado descritto come una banda di ragazzini guidati da un pazzo, Vladimir Putin, a cui i consiglieri non osano dire la verità. Poi Kiev denuncia nuovi attacchi al Sud.
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Sulla Nuova Bussola quotidiana Gianandrea Gaiani scrive: «Su alcuni temi legati allo sviluppo delle operazioni militari e parallelamente delle trattative sembrano invece esservi maggiori indicazioni. Innanzitutto i russi non hanno mai puntato a una guerra-lampo ma a prendere il controllo delle aree abitate per lo più da popolazione russofona lungo i confini con Russia e Bielorussia e lungo le coste del Mare d’Azov. Se si osserva la mappa si nota che la penetrazione in territorio ucraino disegna una mezzaluna con i vertici rivolti a Occidente, verso Kiev a nord e verso Mikolayv e Odessa a sud. Se poi si confronta la mappa dell’avanzata russa con quella che indica la maggiore concentrazione di popolazione russofona si può notare che sono perfettamente sovrapponibili. Questa valutazione spiega anche il lento procedere dell’offensiva russa tesa, come abbiamo sempre sostenuto, a limitare le perdite tra le truppe russe ma anche tra quelle ucraine e soprattutto tra i civili».
Naturalmente Gaiani non ha alcuna simpatia per l’aggressione russa all’Ucraina, ma è abituato a scrivere analisi argomentate e intelligenti delle operazioni militari, senza farsi chiudere gli occhi e bollire il cervello dall’indossare un elmetto in redazione.
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Sul Sussidiario Giuseppe Morabito, membro fondatore dell’Institute for Global Security and Defense Affairs (Igsda) e membro del Collegio dei direttori della Nato Defense College Foundation, dice: «È la guerra che sanno combattere i russi. Nella battaglia in campo aperto sono riusciti a ottenere risultati, hanno avuto difficoltà a entrare nei centri abitati non essendo addestrati a questo. Se avessero fatto solo bombardamenti non avrebbero ottenuto gli stessi risultati in termini di conquista del territorio. Una guerra oggi si può fare in tanti modi, da quella cibernetica a quella missilistica, ma se non posi gli stivali sul terreno, come dicono gli inglesi, non ottieni la vittoria. Putin voleva terreno, le due repubbliche, il controllo delle coste e la Crimea. Ci doveva mettere sopra i soldati e lo ha fatto. Tutto questo al tavolo delle trattative avrà un peso significativo».
Fermo nel condannare Vladimir Putin, anche Morabito non rinuncia all’analisi realistica dei fatti.
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Su Open si scrive: «Un Comitato investigativo russo ha accusato l’ex ministro della Difesa ucraino Valery Geletey, l’ex capo di Stato maggiore Viktor Muzhenko e altri 20 ufficiali militari ucraini di genocidio in contumacia. L’ufficio stampa della commissione della Duma lo ha fatto sapere alla Tass dopo una riunione tenuta dal suo capo Alexander Bastrykin. “Sulla base delle prove, 22 persone sono state accusate di genocidio della popolazione civile di lingua russa. Tra gli imputati, l’ex ministro della Difesa ucraino Valery Geletey, l’ex capo di Stato maggiore Viktor Muzhenko e altri funzionari del comando superiore”, ha fatto sapere Bastrykin. Il Comitato ha anche osservato che, durante l’indagine, è stata analizzata costantemente una grande mole di documenti e altre informazioni: “Le prove contenute in questi documenti hanno permesso di rivolgere le accuse ad alcuni militari ucraini di alto rango sospetti di essere coinvolti nella morte di civili del Donbass”».
Naturalmente non si può avere alcuna fiducia nella propaganda russa che giustifica l’aggressione all’Ucraina, però sarebbero utili veri giornalisti, tipo Toni Capuozzo, che verificassero quel che è successo nelle aree russofone dell’Ucraina.
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Su Strisciarossa Sergio Sergi scrive: «Il Kosovo è diventato indipendente, dopo scontri dolorosi alla fine degli anni Novanta, però non è riconosciuto da Russia e Cina, membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu, ma neppure da cinque Stati europei come Romania, Spagna, Slovacchia, Grecia e Cipro. Accettare lo status del Kosovo significherebbe mollare sulle spinte autonomiste presenti in tanti territori. Il dossier è una spina nel fianco dell’Ue. I contrasti nell’area dei Balcani occidentali sono, talvolta, alimentati da vicende in apparenza futili ma suscettibili di scatenare pericolose avventure».
Sempre per chi vuole intendere la realtà effettuale delle cose, non è inutile riflettere su quel che è avvenuto nel Kosovo negli anni Novanta e come questo abbia influito anche su quel che accade oggi in Ucraina. Capire non significa giustificare la brutalità russa, ma comunque è anche differente dal mettersi l’elmetto in redazione.
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Su Formiche Emanuele Rossi scrive: «Anche perché nel caso specifico dell’Algeria tutto è anche connesso alle pesanti dinamiche regionali come quelle in Libia e Tunisia, su cui invece l’amministrazione statunitense non sembra particolarmente interessata a giocare il suo ruolo politico e diplomatico».
Gli americani stanno cercando in tutti i modi di sistemare i problemi che la guerra in Ucraina e le sanzioni a Mosca creano al mercato dell’energia e dunque al funzionamento delle economie europee. E si prodigano così in iniziative diplomatiche verso aree del Nord Africa e del Medio Oriente che hanno negli anni recenti destabilizzato senza preoccuparsi di costruire nuovi equilibri.
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Su Scenari economici Guido da Landraino scrive: «Più di recente, la scorsa settimana sono emersi video sui social media, suggerendo che i ribelli Houthi avevano lanciato venerdì mattina una raffica di missili sull’Arabia Saudita che hanno colpito un impianto petrolifero Saudi Aramco a Gedda, il tutto anche in prossimità del Gran Premio dell’Arabia Saudita. Questo attacco è stato il secondo di questo tipo lanciato dalla milizia Houthi in cinque giorni sulle strutture di Aramco in Arabia Saudita. Gli Houthi hanno usato missili e droni per prendere di mira almeno sei siti Aramco la settimana precedente, spingendo Riyadh ad affermare di non essere responsabile degli alti prezzi del petrolio e suggerendo che l’Opec non ha intenzione di aumentare la produzione oltre quanto già concordato dal cartello. Un modo per fare pressione agli Usa affinché migliorino la protezione del Regno, mandando più batterie di Patriot in loco. Peccato che nessun paese europeo si riesca ad inserire nel business».
L’amministrazione democratica americana per favorire una ripresa di trattative sul nucleare con una Teheran superimpegnata militarmente in tutta la Mezzaluna fertile (Libano, Siria, Iraq, Yemen), ha tolto le milizie Houthi dall’elenco delle organizzazioni terroristiche. Adesso è pronta a fornire missili a sauditi ed emiratini contro gli Houthi, per cercare di isolare Mosca. Staranno anche prevalendo le democrazie sulle autocrazie, però a me sembra di cogliere un terribile vuoto strategico nella politica estera degli Stati Uniti.
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Su Startmag Luigi Pereira scrive: «Eppure Putin, ha sottolineato il presidente del Consiglio, “mi ha detto che i contratti esistenti” per le forniture di gas “rimangono in vigore”. “Non ci sentivamo con Putin da prima della guerra e ho chiarito il perché della chiamata: voglio parlare di pace. Ho chiesto se e quando fosse previsto il cessate il fuoco, anche breve, ma le condizioni non sono mature, però è stato aperto il corridoio di Mariupol”, ha aggiunto spiegando che per il presidente russo ci sono “piccoli passi avanti” nei negoziati».
Mario Draghi per i suoi particolari legami con l’amministrazione americana sta svolgendo, nonostante i pasticci di Joe Biden, un ruolo prezioso per la pace in Ucraina e per l’approvvigionamento energetico europeo.
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Su Dagospia, riprendendo un lancio dell’Ansa, si scrive: «“La questione dei garanti del trattato è aperta, tutti possono partecipare. E l’Italia è interessata a parteciparvi. Saremmo molto grati all’Italia se lo facesse. È un trattato che potrebbe costruire una nuova architettura della sicurezza globale”. Lo ha detto, incontrando i media internazionali a Leopoli in videocollegamento, il capo negoziatore ucraino Mikhailo Podolyak».
Anche Zelensky ha colto il ruolo che Draghi, grazie alla sua influenza su Washington, può giocare per contenere la voglia americana di combattere fino all’ultimo ucraino.
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