
Tendere la rete ai giganti della rete. Web tax vs Tobin tax

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Chi l’avrebbe mai detto, se l’Italia riuscirà finalmente a far pagare le tasse ai giganti della Rete lo dovrà al procuratore capo di Milano, Francesco Greco, uno dei magistrati più esperti di reati finanziari. Greco è riuscito laddove la politica ha tentennato per anni, un po’ per non far apparire l’Italia un paese «nemico delle nuove tecnologie», come ha sostenuto più volte Matteo Renzi, e un po’ per impreparazione di fronte a un tema che non ha ancora trovato una soluzione omogenea a livello globale.
La storia è nota, ma potrebbe avere un’evoluzione inattesa ora che, dopo una lunga battaglia parlamentare, è stata approvata la Web tax transitoria che, tra l’altro, istituisce un «fondo per la riduzione del peso fiscale». Ebbene, tale fondo è stato preso di mira da chi punta ad abolire la cosiddetta Tobin tax (cioè la tassa sulle transazioni finanziarie su azioni introdotta dal governo Monti) e rendere più attraente la Borsa italiana in vista della Brexit. Il ragionamento su cui si basa questa intuizione è il seguente: se la Tobin tax si è rivelata deludente e assicura ormai non più di 400 milioni alle casse dello Stato, perché non utilizzare come copertura finanziaria una parte del gettito previsto dalla Web tax rendendo così più attrattiva piazza Affari in una fase in cui anche Francia e Germania appaiono come concorrenti agguerrite? Grandi manovre sono in corso per spingere quest’ipotesi che trova convinti sostenitori all’interno della commissione Finanze della Camera, presieduta da Maurizio Bernardo appena passato al Pd di Renzi, ma che incontra parecchie resistenze negli ambienti del governo e anche del Parlamento. Al netto di opposizioni ideologiche, è probabile che qualche spiraglio nel dibattito si vedrà quando arriveranno i primi introiti fiscali dalle web company. Vediamo come.
In seguito ai procedimenti condotti negli ultimi anni dalla procura di Milano, prima Apple e poi Google si sono dovute “piegare” al fisco italiano versando oltre 300 milioni di euro ciascuno all’erario e presto altri gruppi come Facebook e Amazon potrebbero seguire il loro esempio visto che, come annunciato dallo stesso Greco, sono coinvolti in indagini analoghe per reati sia di elusione che di evasione fiscale (in materia esistono video audizioni del procuratore milanese al Senato molto dettagliate e illuminanti). Ma il risvolto più interessante di tutta la vicenda è che in seguito a quest’azione della magistratura milanese, che si è mossa di concerto con la Guardia di finanza, e con l’appoggio “esterno” dell’Agenzia delle Entrate, almeno fino a quando quest’ultima è stata guidata da Rossella Orlandi, che è stata costretta a lasciare a metà giugno, i colossi di internet hanno cominciato a porsi il problema di come fare business in Italia rispettando le regole del paese.
Nelle casse pubbliche
A un certo punto il clamore creato dalle indagini ha fatto intravedere qualche crepa nel muro di gomma opposto dalle multinazionali di internet alle pressioni dei paesi europei e si è creato il clima politico favorevole a un intervento legislativo sulla materia su proposta del presidente della commissione Bilancio della Camera, il pd Francesco Boccia, che a Tempi dichiara: «È sacrosanto far pagare almeno le imposte indirette al tempo dell’industria digitale. Personalmente, avrei preferito una norma anche più rigorosa con l’obbligo da parte degli operatori di dichiarare la stabile organizzazione nel nostro paese quando hanno una infrastruttura digitale che ne sostiene traffico e transazioni. Ma ho trovato molte resistenze in Parlamento. Ora ai big del settore dico: siate italiani in Italia e usufruite di questo percorso per regolarizzare la vostra posizione».
Ma che cosa prevede esattamente la legge sulla Web tax transitoria? Le società non residenti che appartengono a gruppi multinazionali con ricavi superiori a 1 miliardo di euro e che effettuano cessioni di beni e prestazioni di servizi in Italia per un ammontare superiore a 50 milioni avvalendosi di «società residenti o di stabili organizzazioni» possono avvalersi di una procedura di cooperazione e collaborazione rafforzata per la definizione dei debiti tributari. In buona sostanza, esiste la possibilità di autodenunciarsi al fisco italiano sottoscrivendo una sorta di accordo per il versamento di un determinato ammontare. La norma è appena entrata in vigore ed è presto per prevedere chi opterà per questo regime, ma non è escluso che ci possano essere adesioni già per l’esercizio fiscale 2017. La previsione di Boccia è che dalla Web tax arrivino da 1 a 4 miliardi di euro di nuovo gettito fiscale (a regime), grazie all’adesione anche di altri colossi che operano in rete nel campo del commercio elettronico o dei servizi come Uber, Airbnb, Booking.it, Ebay, anche se la loro adesione alla soluzione italiana è ancora tutta da verificare. Per quanto riguarda l’utilizzo delle risorse, ecco che cosa dice la norma: «Le entrate derivanti dall’articolo in esame affluiscono ad appositi capitoli del bilancio dello Stato e sono monitorate dal ministero dell’Economia e delle finanze. Le stesse entrate sono destinate al fondo per la non autosufficienza e al fondo per le politiche sociali per un ammontare non inferiore a 100 milioni di euro annui. La restante parte è destinata al fondo per la riduzione della pressione fiscale». E questo è il punto.
Il destino di Milano
In questo fondo, che non ha vincoli di alcun tipo, non c’è ancora nulla, ma la previsione è che comincerà a riempirsi presto aprendo il fronte Tobin tax, la cui abolizione resta un’occasione da non perdere per tutto il movimento di idee che la considera un’odiosa zavorra per gli investitori di Borsa (da quando è entrata in vigore le transazioni sull’azionario si sono ridotte notevolmente assicurando un gettito di gran lunga inferiore alle attese). Bepi Pezzulli, presidente del Comitato Select Milano, ispiratore e promotore di molte iniziative, anche di carattere legislativo, per sostenere il riposizionamento di Milano nell’Europa post Brexit, spiega a Tempi: «Esistono fattori esterni che rendono Milano la soluzione inattesa per il necessario riequilibrio europeo dopo che è stato dato il via al processo che prevede il trasferimento nell’Eurozona del mercato dell’Euroclearing da Londra».
E chiude così: «La commissione Finanze della Camera dovrebbe riuscire a mettere a sistema gli strumenti amministrativi disponibili per chiudere il cerchio su Milano piazza finanziaria. Ma la persistenza della Tobin tax nel nostro paese non è un segnale positivo per investitori e operatori che in questa fase possono valutare opportunità in altri paesi. Sarebbe un peccato se
l’Italia perdesse questo treno e mi pare che allo stato la soluzione sia a portata di mano».
Foto Ansa
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!