
La “Tecnodestra”, o di come la sinistra ha smesso di capire le Big Tech

Si dice che dietro all’improvviso e ondivago ripensamento sui dazi di Donald Trump ci siano anche le proteste dei grandi ceo di Wall Street e della Silicon Valley, le famose Big Tech passate in poco tempo dalle coccole a Obama e Biden al sostegno del presidente repubblicano.
«Imponendo dazi massicci e sproporzionati ai nostri amici e ai nostri nemici e lanciando così una guerra economica globale contro il mondo intero in una volta sola, stiamo distruggendo la fiducia nel nostro paese come partner commerciale, come luogo in cui fare affari e come mercato in cui investire capitali», aveva twittato l’investitore miliardario Bill Ackman, chiedendo proprio una pausa di 90 giorni. Come lui, ma non pubblicamente, si sarebbero lamentati direttamente con Trump molti capi di grandi aziende tech, fino allo stesso Elon Musk, che ha auspicato l’azzeramento bilaterale dei dazi tra Stati Uniti e Unione europea. Il presidente ha ceduto alle proteste, e sospeso tutto per 90 giorni con l’eccezione della Cina.
Perché leggere “Tecnodestra” di Venanzoni

Per capire il motivo per cui Trump è costretto a dar retta alle richieste degli imprenditori tecnologici, è bene leggere il nuovo libro di Andrea Venanzoni, Tecnodestra. I nuovi paradigmi del potere (Signs Books), nel quale si descrive con lucidità e conoscenza approfondita un mondo in cui la politica non si fa più nei palazzi, ma sulle piattaforme, in cui utenti, clic e algoritmi contano più dei voti nelle urne e persone come Musk, Thiel, Andreessen hanno lo stesso peso di Trump, Starmer, Putin.
Quello di Venanzoni è un saggio storico e politico sui nostri tempi che ha il merito di non ripetere la stucchevole litania sulla fine della democrazia né di abbracciare il tecnottimismo progressista che andava di moda fino a qualche tempo fa. Già, perché da quando i titani del tech hanno scelto di non demonizzare più il brutto, sporco e cattivo Donald Trump, ma anzi di appoggiarlo prima e dopo la sua recente rielezione, a sinistra si sono improvvisamente accorti che forse qualche difetto lo avevano anche loro: nella narrazione mediatica il genio visionario Elon Musk è diventato un pericoloso neonazista, Mark Zuckerberg che annuncia la fine del fact checking su Facebook e Instagram un censore ipocrita (ma quando cancellava le notizie sul figlio di Biden e sul Covid era un eroe della democrazia), e così via.
Perché non si parlava di “tecnosinistra”?
Può sembrare strano a chi non frequenta i social network e li vede come una perdita di tempo da ragazzini, ma se è vero che, come scrive Venanzoni, la rete digitale ha una forza molto più dirompente di strade, piazze, giornali e tv, «la partita che si gioca sulla moderazione dei messaggi e dei post […] è una partita del tutto politica». La sinistra, al potere quasi ovunque quando il fenomeno delle piattaforme social è esploso, l’ha cavalcato senza capirlo, e quando è stata travolta dalle vittorie elettorali della destra in gran parte dell’Occidente ha tirato fuori la definizione che dà il titolo al saggio: tecnodestra. Là dove naturalmente non si è mai parlato di tecnosinistra quando le stesse piattaforme spingevano idee e politiche progressiste e censuravano opinioni in nome del politicamente corretto woke.
Venanzoni è bravo a raccontare come nel caos lasciato dalla crisi della globalizzazione, delle democrazie rappresentative e delle ideologie novecentesche, sia emersa una nuova élite fatta da ingegneri, programmatori, startupper. Nelle sue pagine ben documentata, l’autore guida il lettore dentro all’ecosistema che ha prodotto la tecnodestra: dalla cultura hacker libertaria della prima Silicon Valley al disincanto accelerazionista di oggi; dalla Rust Belt ferita al sogno delle città-piattaforma; dall’individualismo anarco-capitalista al trolling politico come azione metapolitica, che ha trovato proprio in Trump una sorta di imbattibile “capo troll”; dalla fine della sovranità statale al ritorno del feudalesimo, ma in versione digitale.
La tecnodestra e il nuovo ordine feudale
Il cuore teorico del libro è l’intuizione che le piattaforme digitali stiano ricreando un ordine neofeudale: un mondo frammentato in micro-sovranità, gestito da signori privati, dove il contratto conta più della legge, l’algoritmo più della Costituzione. Il paragone con il medioevo non è usato in chiave regressiva, ma strutturale: come allora, anche oggi il potere è spezzato, liquido, ma non per questo meno invasivo. Venanzoni è bravo a non schierarsi, ma non per questo finge di non vedere ad esempio che molti degli attacchi alla tecnodestra sono motivati non da amore per la libertà, ma dal fastidio per chi osa uscire dal pensiero unico. Musk viene odiato non perché è ricco, ma perché parla di libertà, Thiel non perché è un monopolista, ma perché non è woke. Entrambi perché stanno con Trump.
Tecnodestra non è un pamphlet reazionario, ma nemmeno un’invettiva liberista. È una mappa di tensioni. C’è il bisogno di libertà e quello di ordine. Il rifiuto della censura e il timore delle fake news. La voglia di rompere i vecchi schemi e il rischio di nuove oligarchie. Venanzoni non li risolve, li espone. E spiega perché il potere politico oggi non può prescindere da questi protagonisti.
Che cosa può fare l’irrilevante Europa
«La tecnodestra è già qui», scrive l’autore nella sua conclusione, «tra le sale delle università, punteggia le pagine dei giornali e le parole degli editoriali, emerge nel lessico politico e nel dibattito pubblico. Non è forma ideologica, ma prassi ricombinante che assomma e sintetizza modi, idee diverse, stili, sospesi tra alta tecnologia e politica, funzionalmente protesi alla comprensione di un presente accelerato. È pragmatica tensione alla innovazione, opposizione all’accentramento burocratico e radicale, intransigente rifiuto della retorica della giustizia sociale e dei “diritti” e dell’auto-distruzione d’occidente, progresso nel senso profondo del termine, non fanatico ma che del pari rigetta dogmi green e decrescisti, e che nella forza creatrice e disruptive dell’alta tecnologia scorge il profilo della disossificazione di modelli istituzionali paralizzati, incapaci di muoversi, di evolversi, di decidere».
In questo nuovo scacchiere del potere l’Europa è irrilevante. Non perché manchi di risorse, ma perché senza visione. Mentre gli Stati Uniti discutono sul futuro del digitale, l’Unione Europea tassa, norma, contiene. «Se le piattaforme digitali pongono in crisi, con la loro morfologia, con i loro sistemi di governance, con i loro prodotti, l’attuale modello europeo, ecco l’opportunità politica; quella di rifondare radicalmente l’UE, liberandosi finalmente di regole asfissianti, micro-fisiche e castranti, spogliandosi del pari di una classe politica del tutto impreparata per affrontare le sfide del futuro. All’ombra delle piattaforme digitali e dell’impero, che esse hanno costituito reticolarmente e globalmente, si schiudono enormi opportunità di crescita e di innovazione».
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