Te Deum, padre Maurizio Bezzi. Per quelle facce da presepe

Di Maurizio Bezzi
02 Gennaio 2013
Il regalo più bello è vedere i ragazzi di strada di Yaoundé rinascere nell’abbraccio di Dio che si fa compagno del loro cammino.

Come ogni anno, l’ultimo numero del settimanale Tempi raccoglie una serie di “Te Deum” di personalità significative all’interno del panorama sociale italiano. Nel numero che trovate in edicola a partire da giovedì 27 dicembre troverete i contributi di Angelo ScolaLuigi NegriAlberto Caccaro, Aldo TrentoLuigi Amicone, Antonio SimoneRoberto FormigoniMarina Corradi, Renato Farina, Mattia Feltri, Pippo Corigliano, Annalisa Teggi, Costanza MirianoDavide Rondoni, Giampiero Beltotto, Maria Rita O., Antonio Gurrado, Maurizio Bezzi, Cecilia Carrettini, Gian Micalessin, Lorella Beretta, Andrea Mariani, Berlicche e molti altri.
Pubblichiamo il Te Deum di padre Maurizio Bezzi, missionario del Pime, che si dedica da oltre vent’anni agli mboko, i ragazzi di strada di Yaoundé, Camerun. Dal 2002 dirige il Centro diurno Edimar, dove tutti i giorni si prende cura di 160-170 adolescenti e giovani che vivono alla giornata. 

Da un missionario che negli ultimi ventuno anni si è dedicato ai ragazzi di strada di Yaoundé (Camerun) ci si aspetta che ringrazi Dio per tutto l’amore che ha avuto la grazia di dare e di ricevere per così tanto tempo dentro a questa esperienza. E invece no, il mio primo ringraziamento è per la gente che il Padreterno mi ha messo vicino, per il gruppo di amici quasi tutti africani con cui condivido questa avventura. In particolare per Mireille, un vero pilastro della nostra esperienza educativa, che anche tanti italiani conoscono avendola incontrata al Meeting di Rimini. Sì, sottolineo che si tratta di un’opera educativa prima che assistenziale, anche se i ragazzi hanno bisogno costantemente di medicine e di igiene, cose che trovano al Centro Edimar, aperto ogni giorno dalle 10 alle 18, insieme alle occasioni di svago e di formazione come la scuola di alfabetizzazione pomeridiana. Ma soprattutto trovano noi, trovano la proposta stabile della nostra amicizia, quella che c’è fra noi e quella aperta a loro.

Come gruppo di educatori, siamo consapevoli di essere chiamati a essere testimoni dell’avvenimento che ha preso la nostra vita: il “sì” di Maria, il Verbo che si fa carne, Dio che si fa uomo tra gli uomini. Questa storia si conferma una bella avventura, un’amicizia che da quel “sì” non fa che dilatarsi e trasformare l’umanità di ragazzi sui quali nessuno scommetterebbe un centesimo. Pensando alla nostra esperienza in questo ambito così problematico mi viene in mente quel che Benedetto XVI ha detto della relazione educativa, definendola «l’incontro tra due libertà». E pensando a tutte le difficoltà che abbiamo incontrato, sia per creare l’opera che per gestirla, non posso non ricordare quello che ha scritto nel suo messaggio all’ultimo Meeting: «Ogni cosa, ogni rapporto, ogni gioia, come anche ogni difficoltà, trova la sua ragione ultima nell’essere occasione di rapporto con l’Infinito, voce di Dio che continuamente ci chiama e ci invita ad alzare lo sguardo, a scoprire nell’adesione a Lui la realizzazione piena della nostra umanità. (…) Non dobbiamo avere paura di quello che Dio ci chiede attraverso le circostanze della vita».

 

La cosa più difficile è lasciarsi amare

Dando uno sguardo a tutti gli anni trascorsi qui non posso che confermare la grandezza di queste intuizioni. È la possibilità reale di un abbraccio sincero a un’umanità che si dava per finita e che invece, come per Zaccheo e tanti altri, rifiorisce a partire da uno sguardo diverso. È bello vedere qualcuno rinascere: vederlo prendere una coscienza nuova di sé, vederlo addolorato per il male fatto a sé e agli altri e desideroso di ritrovare un cammino verso Dio e verso gli uomini attraverso il sacramento della riconciliazione. Oppure vedere chi ripercorre la sua storia carica di sofferenza (sentirsi abbandonato dalla famiglia, dormire all’aperto, anche sugli alberi…) concludendo che la sofferenza non è stata per il nulla, ma che tutto questo ha un senso ed è una scuola di vita. E, magari, gli viene anche una gran voglia di imparare a leggere e scrivere.

Una sera mi telefona un ragazzo dicendomi che passando davanti alla prigione aveva visto un detenuto incatenato: ha pensato al male fatto quando viveva da sbandato e alla grazia ricevuta di poter guardare ora alla vita in un altro modo. Ma nulla di tutto ciò accade meccanicamente, e neanche imponendo un regolamento. «Sento quanto è difficile per me lasciarmi amare», diceva un giorno un ragazzo, con il quale spesso serve molta pazienza da parte nostra. Credo però che uno dei più bei regali di questi anni l’abbiamo ricevuto da un ragazzo che dopo moltissimo tempo è ritornato in famiglia dove continua la scuola iniziata al Centro Edimar. Ci ha scritto ringraziandoci perché «mi avete educato alla libertà… ora in famiglia mi sento libero». Noi non gli abbiamo mai fatto discorsi sull’argomento: è una conclusione che ha tratto lui guardandoci.

Mi chiedono spesso di pregare per loro, ma non in modo collettivo: «Devi aver ben presente i nostri volti», mi dicono. Sì, in questi anni è esplosa una domanda di rapporto personale, che va dal chiedere di potersi confessare alla richiesta «vienimi a trovare lì dove lavoro», oppure «incontra mio padre, incontra mia madre».

Vorrei proprio che tutti i ragazzi che incontriamo trovassero un posto nel Presepe. Perché il cuore di ognuno di loro desidera essere abbracciato dal mistero di Dio entrato nella storia per farsi compagno del nostro cammino. Sono sicuro che Edimar, il ragazzo di una favela brasiliana che fu ucciso perché si era convertito e non accettava più gli ordini della gang e che dà il nome al nostro centro, ci aiuta dal Cielo. E credo che sorrida come sorridono i passeggeri alla stazione ferroviaria qui di fronte, quando i nostri ragazzi gli fanno da facchini e intanto cantano Sul paion, la canzone degli alpini che gli abbiamo insegnato. E credo che si commuova quando li sente cantare un’altra delle canzoni che abbiamo insegnato: «Noi non sappiamo chi era, noi non sappiamo chi fu, ma si faceva chiamare Gesù».

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