Te Deum laudamus per una donna totalmente consumata dal desiderio

Di Alberto Caccaro
14 Dicembre 2020
Ho conosciuto madre Elisabetta attraverso le sue poesie, Frammenti, che raccontano la sua ricerca interiore. La sua, la mia, la nostra sete di Dio
Monaca in preghiera

Articolo tratto dal numero di dicembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

«Piango, piango, piango l’agonia dell’assenza, ho voglia di cielo… insieme a Te». Sono missionario del Pontificio istituto per le missioni estere (Pime), vivo e lavoro in Cambogia dal 2001 e quest’anno, 2020, festeggio il 25esimo anniversario di sacerdozio. Sono stato ordinato sacerdote il 10 giugno 1995 nel duomo di Milano e pochi anni dopo sono partito per quel piccolo paese del Sud-est asiatico, bagnato dalle acque del Mekong. Basterebbe anche solo questo per essere grati, ma non è di questo che voglio parlarvi.

Quando torno in Italia – sono originario di Somma Lombardo in provincia di Varese – visito spesso il vicino carmelo di Legnano, abitato da sedici suore di clausura che pregano per me e per molti altri. Dalla loro intercessione in Italia io traggo forza in Cambogia! Nella memoria storica del monastero, una figura più di altre riempie l’orizzonte di grazia e gratitudine. Si tratta di madre Elisabetta della Santissima Trinità, al secolo Giannina Arrigoni, nata a Varedo nel 1935 e morta a Legnano nel febbraio del 2004. Purtroppo non ho potuto conoscerla personalmente, ma solo attraverso i suoi scritti. In particolare una raccolta di poesie intitolata Frammenti, che ben esprime la sua ricerca interiore. Ecco, di questa vita interiore vorrei parlarvi perché racconta la sua, la mia, la nostra sete di Dio.

I versi poetici di madre Elisabetta sono come carezze, “modi di sfiorare”, senza costringere. Ogni pagina non rappresenta un approdo ma una ferita. Che ancora sanguina. «Signore Gesù, ti prego, “esisti”!» è la prima supplica, incipit della prima poesia. La fede, per quanto sostenuta dalle consuetudini del monastero e dalla compagnia delle altre sorelle, è stata per madre Elisabetta incessante gemito interiore, sentito a volte come «sollecitudine di Dio nel mio cuore», più spesso vissuto come «puro grido d’invocazione» che ne modellava l’anima indotta dalla sete a perseverare senza pretendere alcuna risposta. Diceva di sé:

«Grido, grido io rimango/ grido forte, per sempre,/ per la gloria del mio Dio!».

Sazia e assetata

Frequentare questi versi, scritti da una donna volitiva e ardente d’amore per il suo Signore, mi accarezza l’anima, mi fa grato per la vocazione sacerdotale e missionaria, ma più ancora per la fede ricevuta, intesa non appena come risposta al senso della vita, ma come quotidiana «agonia dell’assenza» che spinge a cercare. A cercare ancora.

Dio – scrive Dante nel XXXI canto del Purgatorio – è come un cibo spirituale «che, saziando di sé, di sé asseta». Ché nel darsi all’uomo lo ferisce, lo sazia eppure lo asseta. Anche madre Elisabetta ha avuto un’intuizione simile, come un altalenante sentimento di pienezza per aver risposto alla chiamata e allo stesso tempo una fame come di «grembo ormai svuotato/ di vane attese/ e fatui desideri». «Sei venuto di sera,/ inatteso», scrive ancora la madre, «insieme a tavola (…) e tra le mani il/ pane della fame». 

Non si è mai sazi nemmeno tra le mura di un carmelo. Una «nostalgia mi prende/ di una stanza in cielo», scriveva il 10 febbraio 1997. Madre Elisabetta è ricordata per la sua sincerità. Non si risparmiava. Viandante, mendicante, pellegrina dell’Assoluto, sono le immagini che meglio la descrivono.

«Non ho casa, Signore,/ solo una tenda/ nel cuore di un altro/ e piaghe di freddo/ da Lui fasciate/ nella silente attenzione notturna». «Sempre più sola eppure “due”». «Solo il Tuo amore/ cingere può questi scampoli di vita».

Similmente, una voce più nota, quella di Elena Bono, testimonia qualcosa di analogo. «Quando tu mi hai ferita?», chiede la poetessa a Dio, consapevole che la fede non guarisce ma ferisce, intuendo in tutto ciò una chiamata alla resa. Dio vuole «soltanto questo in cambio dell’infinito amore/ che io soffra l’amor Tuo/ che me lo porti come piaga profonda/ e non la curi».

Madre Elisabetta è anche ricordata come donna di desiderio. Era anzitutto instancabile verso le sue sorelle, desiderava per loro il meglio. Aveva guidato la comunità come priora per diversi anni. Eletta una prima volta nel 1991, ricoprirà l’incarico per tre trienni consecutivi. Godeva però della stima di tutte non per le sue certezze, ma per quell’incessante anelito del cuore, insonnia dell’anima, incolmabile distanza che in lei si faceva «nutrimento del desidero… memoria dell’Assente… erotica tensione verso l’Unico».

Versi scritti con il sangue

Te Deum laudamus per questa donna di Dio. In un tempo segnato da un’eccessiva preoccupazione per la salute, madre Elisabetta spinge il mio e nostro desiderio ben più in alto ad anelare salvezza. Altrove.

Donna per la quale la fede non guarisce, ma ferisce. A distanza di anni, ne scrivo, per gratitudine. Possa uscire dalla clausura dove ha speso la sua vita ed essere conosciuta. Della loro vita di monache scriveva il 20 ottobre 1990:

«Non vediamo (…) ci spendiamo, ci sprechiamo nel buio/ e ogni giorno, col sangue, prostrate,/ nella terra, sereni, scriviamo: Signore, io credo!». 

Un male incurabile ne ha affrettato la fine. Anzi, il nuovo inizio. Ne sento ancora la sete e la tenera carezza. «Cercando il tuo Volto/ vestita di sangue/ cammino», scriveva nella Pasqua del 1988. Te Deum laudamus per la vita di questa donna!

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