
Te Deum laudamus per chi vede il boa che ha mangiato l’elefante

Anticipiamo il Te Deum scritto per il primo numero del mensile Tempi da Simone Fortunato
Te Deum laudamus per i miei rumeni, pakistani, cinesi, bulgari, ucraini, marocchini, algerini, albanesi, moldavi, per i miei profughi del Gambia. Per Yuri da Kiev, dal cognome impronunciabile e che mi sorride sempre quando entro in classe. Per quelli che hanno papà da una parte e mamma dall’altra e che piangono quando gli racconto di Medea abbandonata da Giasone che se ne scappa dalla giovane principessina Glauce. E allora chiedo a una di questi: «Ma perché piangi?». «Perché la mia mamma è come Medea ma non è una maga». Per quell’altra, con un anno pesante alle spalle, che mi dice quando leggiamo Il piccolo principe «ora riesco a vedere il boa che ha mangiato l’elefante, prima mi fermavo al cappello». Per i miei alunni nati in un disastro che mi insegnano ogni giorno a non dare per scontate le cose che ho e a fregarmene di quelle che non ho e non avrò mai. Tipo i soldi, e la carriera. E il successo. Ma chi se ne fotte. Il Paradiso in terra ha la faccia butterata di un pugno di undicenni selvaggi squinternati, senza radici ma naturalmente, istintivamente attaccati al Bene che, in qualche modo, oltre le mie borse sotto gli occhi, oltre la mia indole anarchica e caotica, oltre il mio essere insofferente alle regole, rappresento per loro. Ma che ci troveranno in me? Mi sorprendo a chiedere qualche mattina, con le loro facce che mi stanno appiccicate e gli occhi che sembrano guardarmi dentro. Sono simpatico, mediamente intelligente, è vero: faccio un sacco di cose con loro. Ho messo in piedi una squadra di pallone, me li porto al cinema e ad ammazzarci di hamburgeroni, facciamo colazione insieme, abbiamo fatto un’aula per l’Open Day su Teseo e il Minotauro che nemmeno nelle scuole di serie A. Che ci troveranno in me questi ragazzi che a fatica mettono in fila una frase scritta di senso compiuto e però mi seguono nei miei racconti sul mito di Achille e compagnia? Che avranno visto? Io sono quello che non ce l’ha fatta, secondo i canoni del mondo: pensavo di cavarmela col cinema ma è stato un disastro, solo mezzi lavori e, tranne un cinema benemerito che non mi ha mai cacciato (e ovviamente Tempi) ,ho beccato solo legnate sui denti. La scuola poi è stata, apparentemente, una discesa agli inferi: dal top del top al mendicare supplenze in istituti del Milanese fino ad arrivare in questa, sperduta nella Brianza.
Proprio qui ho trovato persone che si sono attaccate a me, spesso sull’orlo del baratro, ma ancora vive, e in lotta. In quel film bellissimo che non invecchia mai, Le ali della libertà, a un certo punto Morgan Freeman, appena fuori di prigione, se ne esce con un «o fai di tutto per vivere o fai di tutto per morire» e si precipita dall’amico che lo aspetta in Messico. Pure io, senza essere Morgan Freeman, ho scelto di vivere rimanendo attaccato al punto fermo che mi rende bello e splendido come un principe agli occhi di tanti. La mia casa caotica eppure viva, con una moglie che è un’eroina impareggiabile di un film che è insieme d’avventura, thriller, più spesso horror, con giusto un minimo di sentimento; dei nanetti malefici che ti scompigliano ogni giorno i piani e un gruppo di amici né buoni né cattivi, che non mi mollano mai nonostante le mie cadute e i miei errori.
Se lo dice pure Star Wars
Ecco, allora, il miracolo. Il pakistano, il rumeno, l’ucraino sono così con me perché investiti di un amore grande di cui io sono inconsciamente pallido riverbero. Flannery O’Connor, che per inciso noi leggiamo ogni sera da 21 anni come fosse un breviario o un rosario da snocciolare (è così che si impara a scrivere almeno decentemente, calcando le orme di coloro a cui vuoi bene, ogni santo giorno), diceva che al buon Dio bisogna restituire con gli interessi tutto ciò che abbiamo ricevuto, cioè i propri talenti e le inclinazioni, tipo la scrittura, almeno per lei. Anche io per anni ero convinto di avere ’sto talento, scrivere in bella prosa di film e non solo. Poi, nel tempo, mi sono accorto che c’era una bella differenza tra l’andare al cinema per menarmela sui massimi sistemi e andare al cinema per qualcuno, a cui raccontare quegli sprazzi belli che anche in un brutto film a volte si trovano, se guardi con attenzione. Anche qui, la differenza la fa chi è con te. È dal 1999 che quelli di Tempi mi chiedono: cercaci qualcosa di bello, che valga la pena di segnalare. E così ci mettevamo in moto, un tempo alla ricerca del film slovacco nell’ultimo cinema sfigato di periferia e oggi magari tra i meandri di Netflix. Vennero fuori serate splendide e indimenticabili: le proiezioni per i lettori di Tempi de La rosa bianca, Joyeux Noël, The Way Back. Serate con al centro il cuore, la tensione all’ideale, prima che la tecnica cinematografica. Insomma, è da gente così, ad esempio da un’amica che frequenta tutt’altra parrocchia o da una banda di stranieri undicenni che ho imparato che il mio talento è un cuore grande capace di amare se non tutto, almeno parecchio. Del resto lo dice pure il non eccezionale ultimo Star Wars: si cambia il mondo non odiando i propri nemici ma amando i propri amici.
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