
Suicidio assistito. Lo strabismo della sentenza della Consulta

Depositata nella giornata del 22 novembre la sentenza della Corte Costituzionale sul caso “Cappato-Dj Fabo” con cui si pone fine, almeno per il momento, alla lunga controversia giudiziaria sulla disciplina del suicidio assistito vigente in Italia.
La sentenza, anticipata dal comunicato stampa dello scorso 25 settembre 2019, è giunta dopo un anno dalla ordinanza n. 207/2018 con cui la stessa Corte Costituzionale, affievolendo da un lato il principio della separazione dei poteri e dall’altro recependo principi ispirativi di prassi giuridiche straniere, aveva affidato un termine al Parlamento italiano per legiferare al fine di modificare l’articolo 580 del Codice Penale che per l’appunto sanziona “l’assistenza al suicidio”.
Nella sentenza dello scorso 22 novembre 2019 la Corte Costituzionale ha dichiarato parzialmente costituzionalmente illegittimo il suddetto articolo nella misura in cui non prevede l’esclusione della punibilità di chi agevola il proposito di suicidio autonomamente formato agendo secondo le modalità degli articoli 1 e 2 della legge 219/2017. Sulla predetta sentenza, che senza dubbio rappresenterà il banco di lavoro delle dispute accademiche per i prossimi mesi e anni, si possono intanto effettuare tre riflessioni a caldo sui chiaroscuri che la caratterizzano.
In primo luogo: sebbene la Corte Costituzionale abbia dichiarato parzialmente illegittimo l’articolo del Codice penale che sanziona l’aiuto al suicidio, ha ribadito con fermezza che il divieto in quanto tale non contrasta con la Costituzione, e che anzi è un presidio fondamentale per la tutela dei più deboli e fragili come i pazienti che versano in determinate gravi condizioni.
Dal ragionamento della Corte, quindi, si deduce con palese evidenza che non esiste un “diritto di morire” in quanto tale, affermando la Corte stessa che «dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire. Che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire».
In secondo luogo: la Corte pur ribadendo l’inconfigurabilità giuridica e costituzionale di un “diritto di morire” ritiene, tuttavia, che un divieto assoluto di suicidio assistito rappresenti comunque una limitazione irragionevole del diritto di autodeterminazione che invece deve essere tutelato proprio in ragione del cosiddetto “principio personalistico” su cui si fonda l’intero edificio dei diritti e delle garanzie costituzionali italiane.
Sul punto, occorre precisare che il ragionamento della Corte sembra gravemente afflitto da una forma di strabismo concettuale, lo stesso, del resto, di cui si soffre un po’ in tutti gli ambienti giuridici, causato da una fraintesa concezione del principio personalistico.
Il principio personalistico, di chiara matrice cristiana come riconoscono anche gli storici più laici, presuppone che l’uomo sia qualcosa di più di un individuo, per l’appunto una persona, cioè un essere dotato di coscienza, ovvero della sostanza che gli consente di distinguere il bene dal male.
Proprio in quanto persona, l’uomo, non può essere reificato o manipolato, non può essere ridotto né alla sola dimensione corporea che pur lo costituisce, né alla sola spirituale che pur lo contraddistingue, non può essere utilizzato o schiavizzato, non può essere preso in possesso né da altri e nemmeno da se medesimo. In questo senso è stata quanto mai preziosa la lezione di un filosofo illuminista come Immanuel Kant che, infatti, ha ribadito che l’uomo deve sempre essere considerato un fine e mai un mezzo.
Ed ecco perché uno dei padri della civiltà giuridica italiana come Francesco Santoro-Passarelli ha insegnato che «non esiste e non è neppure concepibile, malgrado ogni sforzo dialettico, un diritto sulla propria persona o anche su se medesimo, o sul proprio corpo, stante l’unità della persona, per la quale può parlarsi soltanto di libertà, non di potere rispetto a se medesima».
Ritenere, come del resto è giusto, che la Costituzione sia fondata sul principio personalistico, ma aprendo delle “brecce” o alterando il senso costitutivo di tale principio, significa tradire allo stesso tempo sia il principio personalistico sia la stessa Costituzione, anche se, ahinoi, tutto ciò avviene ad opera della stessa Corte Costituzionale che dovrebbe invece essere considerata la custode della Carta fondamentale italiana.
In terzo luogo: nella predetta sentenza la Corte Costituzionale precisa, infine, che in ogni caso non vi è nessun obbligo per i medici di assistere al suicidio di chi lo volesse o dovesse richiedere in modo autonomo e libero, quasi creando una clausola di garanzia per l’obiezione di coscienza dei medici che pur la legge 219/2017 – a cui la Corte espressamente si richiama – non prevede.
Si mette a tacere, quindi, la polemica sulla posizione del medico in caso di richiesta di suicidio assistito, ma si apre la via per la definizione dei termini e delle modalità con cui il medico può sollevare tale obiezione di coscienza: non una cosa estremamente positiva in considerazione della sempre agguerrita lotta contro il diritto all’obiezione di coscienza che sparuti, ma agguerriti e influenti gruppuscoli conducono ciclicamente a livello culturale e giuridico.
In conclusione: la predetta sentenza della Corte Costituzionale, che pur possiede ulteriori profili e difficoltà impossibili da esaminare in un così breve spazio, rappresenta più che un punto d’arrivo un punto di partenza per le prossime e future dispute giuridiche e giudiziarie che riguardano il delicato e complesso tema della legalizzazione della morte assistita, sperando che nel frattempo non si assista anche alla morte del senso del diritto.
Foto Ansa
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