
Sudan e Sud Sudan hanno un bisogno disperato della pace

Probabilmente una cosa del genere non era mai successa: un primo ministro visita il paese confinante e lì presiede un incontro negoziale fra il capo di Stato in carica e il suo ex vice presidente che capeggia l’opposizione armata al governo; lo stesso giorno il capo di Stato di quel paese organizza un incontro per mediare fra il primo ministro in visita e i ribelli che combattono contro il suo governo in alcune province del paese! Questa inedita trama di mediazioni incrociate ha preso vita un paio di settimana fa a Juba, la capitale del Sud Sudan, lo stato indipendente più giovane del mondo (è indipendente dal 2011) che dal 2013 è lacerato da una guerra civile che ha visto numerosi tentativi di conciliazione, non ultimo quello di papa Francesco che nell’aprile scorso compì il gesto senza precedenti di inginocchiarsi a baciare le scarpe dei contendenti per scongiurarli di riportare la pace nel paese.
LA TRANSIZIONE IN SUDAN
Dopo quell’incontro in Vaticano, il presidente Salva Kiir e il suo rivale Riek Machar non si erano più rivisti, nonostante la firma di un accordo di pace nel settembre 2018 li impegnasse a compiere una serie di passi per potere inaugurare nel successivo mese di maggio una gestione condivisa del potere. Successivamente le scadenze dell’accordo sono state spostate al mese di novembre, e finalmente dopo cinque mesi i due leader si sono incontrati a Juba sotto gli auspici del più recente primo ministro di tutta l’Africa. Abdalla Hamdok infatti è stato nominato a capo del governo di transizione del Sudan soltanto il 21 agosto scorso, nel contesto di un accordo concluso fra il Consiglio militare transitorio che l’11 aprile scorso aveva preso il potere nel paese deponendo il presidente Omar el Bashir al potere da trent’anni e i rappresentanti delle forze politiche e sociali che nei mesi precedenti al golpe avevano organizzato manifestazioni di piazza contro il presidente, riuniti nella coalizione Alleanza per la libertà e il cambiamento.
Dovrà guidare il paese per un periodo di transizione di tre anni, fino alle elezioni generali previste per il 2022, alle quali non potrà presentarsi come candidato. Hamdok ha deciso che la sua prima visita all’estero sarebbe stata nel Sud Sudan, il paese nato da una secessione dal Sudan nel 2011 dopo mezzo secolo di conflitti che avevano causato milioni di morti. Nonostante la storia sanguinosa che hanno alle spalle, Sudan e Sud Sudan oggi sono costretti a collaborare per uscire dalle rispettive crisi e per le ragioni obiettive che la geografia loro impone.
LA PACE CONVIENE
Per il governo di Khartoum la pace nel Sud Sudan ha un’importanza strategica, perché parte del Pil sudanese dipende dal transito del petrolio del sud attraverso gli oleodotti che lo portano nei porti del Mar Rosso ove viene immesso nel mercato mondiale, e perché nel Sud Sudan hanno le loro basi logistiche arretrate vari gruppi di insorti contro il governo centrale sudanese operanti nelle province del Kordofan meridionale, del Nilo Azzurro e del Darfur.
A Juba Hamdok si è incontrato con esponenti di queste guerriglie sotto gli auspici del presidente Kiir, che così ha scambiato col primo ministro sudanese il posto di mediatore di un conflitto che costui aveva occupato poche ore prima. Juba ha le stesse esigenze di Khartoum: non avendo sbocchi al mare ha bisogno di buoni rapporti col paese vicino per potere esportare quella che finora è l’unica ricchezza del paese, cioè il petrolio, e per evitare che i dissidenti interni trovino sostegni in Sudan, come avveniva già al tempo della guerra civile, quando alcuni gruppi finivano per stringere accordi col nemico del Nord pur di contrastare i rivali interni nel Sud.
Nonostante i due paesi abbiano disperatamente bisogno della pace e di una normalizzazione dei rapporti fra di loro, non è affatto detto che il risultato possa essere facilmente conseguito. Il processo di pace nel Sud Sudan è quasi fermo a causa del fatto che prevede che i ribelli pro Machar depongano le armi e che solo una parte di loro venga assorbita nelle forze armate nazionali; la pace all’interno del Sudan è altrettanto problematica perché molti dubitano che i militari rinunceranno davvero al potere per consegnarlo ai civili.
IL RUOLO DEI SAUDITI
Nella sua visita a Juba Riek Machar era accompagnato da Mohamed Hamdan Dagalo “Hemedti”, il generale sudanese responsabile della repressione contro i manifestanti dell’opposizione che nel giugno scorso ha causato oltre 100 morti nella capitale. Dagalo è il vicepresidente del Consiglio della Sovranità, l’organo misto di militari e civili che dal 21 agosto sovrintende a tutte le istituzioni sudanesi e che ha nominato il governo presieduto da Hamdok, ed è l’uomo di fiducia di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, interessati alla stabilità del Sudan in funzione anti-iraniana e anti-Fratelli Musulmani. Dagalo controlla le Forze di sostegno rapido, una forza paramilitare composta dai janjaweed, cioè le milizie che dal 2003 conducono la guerra contro le popolazioni del Darfur. Ancora nel 2015, le Forze di sostegno rapido avrebbero compiuto massacri contro le popolazioni civili del Darfur.
Fra i militanti delle forze politiche e della società civile che hanno animato le manifestazioni che hanno portato alla caduta del dittatore el Bashir nell’aprile scorso pochi credono che i militari cederanno veramente il potere fra tre anni, e tutti puntano il dito verso sauditi ed emiratini, più interessati a consolidare un regime militare forte anti-islamista a Khartoum che a favorire una transizione democratica.
Foto Ansa
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