
L’unico posto in cui regna la pace nel Sud Sudan che spera nella visita del Papa

Chissà se il 2022 sarà l’anno della tanto desiderata visita di papa Francesco nel Sud Sudan: è dal 2017 che le Chiese cristiane locali, le autorità politiche e il pontefice stesso manifestano il desiderio che il vescovo di Roma possa soggiornare almeno per 24 ore sulla tormentata terra del più giovane e più disfunzionale degli stati africani.
Il Sud Sudan è un paese ferito
Lo hanno impedito fino a oggi le carenti condizioni di sicurezza, che non sono sufficientemente migliorate dopo l’accordo che ha messo fine nel 2018 alla guerra civile fra le due principali fazioni del paese (quella del presidente in carica Salva Kiir e quella del suo vice presidente prima deposto e poi riabilitato Riek Machar) e la creazione di un governo di unità nazionale nel febbraio 2020.
Violenze locali su base tribale e comunitaria (che hanno causato l’80 per cento di tutte le vittime nel paese, più di duemila persone) e violenze legate al quadro politico nazionale (nell’Equatoria occidentale e nella contea di Tambura) sono continuate per tutto il 2021, mentre il governo non ha fatto progressi rispetto al raggiungimento degli obiettivi fissati dall’accordo di pace (ricostituzione del parlamento disciolto, creazione di un nuovo esercito nazionale, disarmo delle fazioni).
La visita a Juba del segretario della Santa Sede per i rapporti con gli Stati mons. Richard Gallagher fra il 21 e il 23 dicembre scorsi, che ha incontrato tutte le massime autorità politiche e religiose, è stata un altro tentativo di gettare le basi di una visita del Papa nel 2022, ma niente assicura che il progetto possa realizzarsi.
Il villaggio in cui la pace ha un volto
C’è un solo posto in tutto il Sud Sudan, paese grande il doppio dell’Italia e popolato da 11 milioni di abitanti, dove regna la pace: si chiama Holy Trinity Peace Village di Kuron, e il Catholic News Service (Cns) ha recentissimamente aggiornato il pubblico su questa realtà proprio nei giorni in cui il suo fondatore, l’86enne vescovo cattolico emerito di Torit mons. Paride Taban, è stato ricoverato in ospedale in Kenya.
La pace che i leader politici nazionali non appaiono disposti a far progredire, nonostante papa Francesco si sia umiliato a baciare loro le scarpe come forma di implorazione nell’aprile 2019, e che i conflitti tribali stracciano quasi quotidianamente, riesce ad avere un volto in questo villaggio di un centinaio di abitanti (ma frequentato da migliaia di persone) all’incrocio dei confini di Sud Sudan, Etiopia, Kenya e Uganda.
Qui vanno a scuola, praticano sport, imparano un mestiere, frequentano un dispensario, convivono pacificamente uomini, donne e soprattutto ragazzi e ragazze appartenenti a tribù ed etnie da sempre ostili fra loro: Toposa, Murle, Didinga, Buya, Jie, Turkana e Karamojong, popolazioni che vivono a cavallo dei quattro stati sopra menzionati e da secoli compiono razzie contro i loro vicini, soprattutto per rubare le mucche altrui. I bovini sono la principale moneta di scambio fra i nomadi che vivono in questo angolo di Africa orientale, e servono soprattutto a pagare la dote alla famiglia della sposa al momento del matrimonio tradizionale.
Corsi di formazione e comitati di riconciliazione
Le guerre su larga scala che si sono succedute in questa parte di Africa (l’ultima è stata la guerra civile interna al Sud Sudan che fra il 2013 e il 2018 ha causato quasi 400 mila morti) ha fatto sì che nelle mani dei mandriani e dei razziatori arrivassero migliaia di armi da fuoco, in particolare kalashnikov. Le abituali razzie che prima si effettuavano con armi bianche (lance, frecce, machete) adesso vengono compiute con armi da fuoco, e il numero delle vittime si impenna.
Il villaggio della pace combatte il fenomeno su due versanti: offre corsi di formazione professionale che permettono ai giovani di imparare un mestiere grazie al quale potranno acquistare le vacche per la dote della sposa senza rischiare la vita propria e altrui nelle tradizionali razzie; organizza e convoca comitati di riconciliazione che mediano i conflitti locali, compresi quelli innescati dalle razzie, su un vasto territorio nel sud-est del Sud Sudan. «I comitati lavorano intensamente», dichiara a Cns Albano Louis, un capo toposa. «Le persone espongono i loro reclami, e noi ci impegniamo a migliorare la loro vita. Anziché andare in giro armati nel timore di essere attaccati, ci occupiamo dei problemi che affliggono la vita quotidiana, come la fame. Preghiamo per la pace e pensiamo che tutto questo funzioni. Niente è meglio della pace».
«Basta razzie»
Quando gli accordi non vengono rispettati e si verificano delle razzie, i comitati si muovono per ottenere la restituzione degli animali, e spesso i razziatori pagano una multa pari alle mucche rubate. Presso il villaggio di Kuron si svolgono momenti di formazione per sensibilizzare le donne a convincere i mariti a non partecipare alle razzie.
«Il vescovo ci dice che, in quanto donne, abbiamo la responsabilità di mandare a scuola i nostri figli e che dobbiamo parlare ai nostri uomini perché cessino le violenze e viviamo in pace», spiega Mary Logie, un membro del gruppo femminile di Kuron. «Dico a mio marito che non voglio che partecipi ai raid, ma che si dedichi ai nostri bambini e li faccia andare a scuola. Ha smesso di partecipare alle razzie. Il villaggio lo chiama “codardo”, ma io gli dico che lo amo perché è un codardo. Gli ripeto che non deve partecipare alle razzie, perché se viene ammazzato io non avrò più nessuno da amare».
Etnie diverse, stesse classi
Non è facile nemmeno la scolarizzazione dei bambini, perché le famiglie preferiscono farli lavorare nei campi a scacciare gli uccelli che insidiano le coltivazioni o come pastorelli. Ma a Kuron riescono addirittura a riunire nelle stesse classi studenti di etnie nemiche. Dice padre Henry Gidudu, direttore e cappellano della scuola elementare St. Thomas di Kuron: «Abbiamo studenti toposa, murle, jie e di altre tribù, e quando arrivano qui si guardano come nemici. Poco a poco imparano a guardarsi come amici, imparando valori che li uniscono. A casa loro sentono esaltare la vendetta. Qui insegniamo loro il perdono».
A cominciare tutto questo è stato mons. Paride Taban, vescovo di Torit fra il 1983 e il 2004 attivissimo negli anni della guerra fra il Nord e il Sud nonostante l’ambiente estremamente ostile da cui era circondato: Taban ha rischiato più volte di essere ucciso dalle forze filo-governative (quando il Sud era sotto il governo di Khartoum) ed è stato arrestato e imprigionato in condizioni disumane dai guerriglieri antigovernativi dell’Spla nel 1989, quando questi ultimi erano marxisti ed erano sostenuti dal regime etiopico del colonnello Menghistu.
L’idea di monsignor Taban dopo un viaggio in Israele
Nel 2004, a 68 anni, presenta le dimissioni da vescovo e si dedica al progetto del villaggio della pace a Kuron. L’idea gli è stata ispirata da una visita a Nevè Shalom, il villaggio israeliano dove ebrei e palestinesi vivono insieme pacificamente. Taban, personaggio noto e stimato, ottiene terreni dal governo autonomo sud-sudanese nel 2005 e aiuti internazionali da molti organismi (Norwegian Church Aid, la Commissione Europea, Misereor tedesca, Catholic Relief Services, Caritas e Missio Austria, il Programma alimentare mondiale, ecc.) e così il suo progetto diventa realtà.
Nel 2013 riceve il premio delle Nazioni Unite Sergio Vieira de Mello per la pace, per le sue attività finalizzate alla riconciliazione fra comunità sud-sudanesi nemiche. Nel 2014 il suo ruolo è decisivo nell’accordo di pace fra i ribelli murle guidati da David Yau Yau e il governo sud-sudanese. Nel 2018 riceve, nel contesto dei Roosevelt Four Freedoms Awards, il premio per la Libertà di culto (le quattro libertà che vengono premiate sono la libertà di parola, di culto, dal bisogno e dalla paura).
La scelta della sperduta località di Kuron per la creazione del villaggio pare sia stata una forma di compensazione per un problema che da vescovo Taban aveva creato sul posto pur avendo agito con le migliori intenzioni: per facilitare gli scambi commerciali in quell’area depressa della sua diocesi, il vescovo aveva trovato i fondi per costruire un ponte su un fiume della zona che diventava invalicabile nella stagione delle piogge. Purtroppo il ponte era presto diventato la via di fuga più battuta e veloce per i ladri di mucche. Da qui la scelta di Kuron come la località dove dare vita a un progetto mirato a reprimere il fenomeno delle razzie di bestiame.
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