
Sua maestà
Una bella emergenza. Trovarsi di notte, stranieri, con la giovane Maria che già avvertiva i primi dolori. Giuseppe Ricciotti scrive che i due giovani sposi entrarono alla fine in una stalla “forse occupata parzialmente da bestie, sarà stata tetra e sudicia di letame”. Qui nasce – dicono i cristiani – il Salvatore.
Ma, pensiamoci, può nascere qui, così, Dio fatto uomo? Ma sei davvero tu? I fatti – nella loro crudezza – possono in effetti lasciare assai interdetti fino a scandalizzare come una balla demenziale. Così avvenne nei primi secoli. Gli intellettuali pagani irridevano questi “cristiani” che annunciavano un Dio nato fra animali e letame e morto in modo ancora più vergognoso, osceno: inchiodato al legno di una croce. Il supplizio più ignominioso.
Quando Paolo arrivò ad Atene, nel cuore culturale del mondo di allora, gli intellettuali incuriositi da tutte le elucubrazioni sulla verità lo portarono sull’Areopago. Ma quando Paolo – messosi a parlare di Gesù – arrivò alla sua morte e resurrezione, quelli si misero a ridere, a farsi beffe del “parolaio” e se ne andarono dicendogli: “bene, bene, ma ora abbiamo da fare, su questo punto ti ascolteremo un’altra volta”.
Anche i compaesani di Gesù, gli abitanti di Nazareth, quando Gesù, un giorno dell’anno 28, va nella sinagoga del paese e annuncia che tutta l’attesa millenaria è compiuta e fa segni stupefacenti, non riescono a liberarsi delle immagini che si erano fatte di lui, dalla pretesa di conoscerlo già, non accettano il mistero che dimorava nella sua normalità: “Ma non è il carpentiere? Non è il figlio di Giuseppe e di Maria? I suoi familiari non sono qui fra noi?”.
Perfino Giovanni il Battista, che immaginava – come tutti – un messia che faceva irruzione nel mondo come la folgore, dal profondo della prigione di Erode ha qualche attimo di smarrimento e manda i suoi a chiedergli: “ma sei davvero tu quello che deve venire o dobbiamo attenderne un altro?”.
Gesù fa riferire a Giovanni i suoi segni e poi aggiunge: “beato colui che non si scandalizza di me”. Lo “scandalo”, in effetti, continuerà anche dopo. Continuerà sempre.
Dio che si fa carne? Che la salvezza del mondo, la verità, sia una presenza umana, che incontra gli uomini nella vita quotidiana, che il “miracolo” della felicità accada tramite circostanze accidentali, contingenti, apparentemente casuali, imprevedibili e del tutto gratuite, appare insopportabile. Tutto il pensiero moderno si è costituito contro questo scandalo. Per rimuovere questo scandalo. Si accetta perfino il dogma, che Dio cioè si sia fatto uomo, ma non che sia accaduto così, non si accetta il modo, il metodo.
Nel corso della storia proprio questa sarà l’obiezione di fondo. “Il divino non può essere accaduto così o ciò che è accaduto così non può essere divino”, scriverà David Friedrich Strauss.
“La considerazione filosofica” aggiunge Hegel “non ha altro intento se non quello di rimuovere l’accidentale”. Così l’idealismo tenta il colpo finale per abbattere la storicità dei vangeli (che altro non sono che una trama di incontri) e presentarli come “metafora” per gli incolti di superiori verità filosofiche. Per fare della salvezza un meccanismo storico, universale e necessario (il movimento della storia, lo stato, la rivoluzione…).
Però “i suoi”, i cristiani, non hanno mai nascosto il paradosso della storia di Gesù, proprio ciò che provocava l’irrisione dei pagani, lo hanno esibito in ogni modo: annunciavano un Re dell’universo che non aveva, come simboli, né aquile, né orsi, né leoni, ma un agnello, il più debole e inerme degli animali, destinato a essere vittima. Un Re innalzato non su un trono, ma sul più indegno dei supplizi, una croce dove i suoi arti sono stati inchiodati. Allora più ancora di oggi sapevano di esporsi alla derisione con un simile annuncio. Era infatti uno scandalo dell’intelligenza e della religiosità riferire fedelmente la storia di Gesù e annunciarla come quella di Dio incarnato.
“Beato colui che non si scandalmizza di me”
Ancora oggi – dopo Duemila anni – Egli raggiunge gli uomini attraverso la fragile umanità dei suoi amici, la semplicità, la casualità delle circostanze. “Beato chi non si scandalizza”, chi resta stupito dall'”eccezionale” che sta nell’ordinario. Kierkegaard – in una pagina memorabile – sembra pensare che proprio questo “metodo” salvaguardi la libertà degli uomini. Nella sua opera La malattia per la morte (appena ripubblicata da Donzelli) scrive: “Dio si fa uomo (l’uomo-Dio); ma nell’infinito amore della sua grazia misericordiosa pone però una sola condizione, non può fare altrimenti. Proprio questa è la pena in Cristo, ‘Egli non può fare altrimenti’; egli può abbassare se stesso, assumere la forma di un servo, soffrire, morire per gli uomini, invitare tutti a venire a lui, sacrificare ogni giorno della sua vita, e ogni ora del giorno, e sacrificare la vita; ma la possibilità dello scandalo non può eliminarla. Oh, pena insondabile dell’amore, Dio stesso non può rendere impossibile che questo atto dell’amore possa diventare per un uomo, l’esatto contrario, l’estrema miseria! Perché la massima miseria umana, ancor più grande del peccato, è scandalizzarsi di Cristo e perseverare nello scandalo. E questo Cristo non può farlo, questo ‘l’amore’ non può renderlo impossibile. Ecco, perciò dice: ‘beato colui che non si scandalizza di me’ (….). Per amore Dio diventa uomo. Egli dice: guarda cos’è essere uomo, ma, aggiunge, bada bene, perché io sono anche Dio: beato colui che non si scandalizza di me. Assume come uomo la forma di un umile servo, esprime l’essere in un umile uomo, affinché nessun uomo si creda escluso, o creda che sia l’umano riguardo o il riguardo tra gli uomini a portare più vicino a Dio. No, lui è l’uomo umile. Guarda qui, dice… il Padre ed io siamo una cosa sola, eppure io sono questo semplice, umile uomo, povero, abbandonato, consegnato alla violenza degli uomini: beato colui che non si scandalizza di me. Io, quest’uomo insignificante, sono colui che fa sì che i sordi sentano, i ciechi vedano, gli zoppi camminino, i lebbrosi siano guariti, i morti resuscitino: beato colui che non si scandalizza di me”.
Pensiamoci. Dietro la scontatezza banale e consueta del presepio, c’è un fatto sconcertante: o scandalizza o riempie di stupore.
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