Stato palestinese, Onu: va in scena oggi il diversivo di Abu Mazen

Di Mattia Ferraresi
23 Settembre 2011
Oggi Abu Mazen richiederà ufficialmente all'Assemblea generale dell'Onu di riconoscere lo Stato palestinese. Nei giorni scorsi in Cisgiordania e nei Territori si sono verificati scontri. Oggi la polizia israeliana schiera oltre 22 mila agenti per evitare disordini. Obama ha provato, inutilmente, a far cambiare idea ad Abu Mazen, il cui tentativo resterà una messinscena finché non si tornerà a negoziare davvero

Oggi Abu Mazen, leader dell’Anp, richiederà ufficialmente all’Assemblea generale dell’Onu di riconoscere lo Stato palestinese. In Israele si teme possano scoppiare violenze e disordini in Cisgiordania e nei Territori come già il 21 settembre, quando si sono scontrati manifestanti palestinesi e forze di sicurezza israeliane in diversi check pont in Cisgiordania. Tel Aviv oggi impiegherà una forza complessiva di 22 mila agenti, migliaia dei quali saranno dislocati a Gerusalemme est per contenere possibili manifestazioni palestinesi al termine delle preghiere del venerdì. L’esercito mantiene inoltre uno stato di allerta anche sulle alture occupate del Golan, per controllare i flussi di dimostranti dalla Siria. La scorsa notte Abu Mazen si è incontrato con il presidente degli Stati Uniti Barack Obama, che ha cercato di convincerlo a non formalizzare la richiesta di riconoscimento di uno Stato palestinese. Il tentativo è fallito. Pubblichiamo l’articolo di Mattia Ferraresi uscito sul numero 38 di Tempi, dal 22 settembre in edicola, che spiega perché quello del leader dell’Anp è un inutile diversivo che non può cambiare in meglio lo status quo.

«Nel conflitto fra israeliani e palestinesi nulla è definitivo, c’è sempre tempo per cambiare idea, rimangiarsi la parola data e tornare sui propri passi. Questo vale anche per la richiesta dei palestinesi di essere riconosciuti come stato dalle Nazioni Unite». Dopo trent’anni passati a negoziare la pace per conto dell’America in quel drammatico fazzoletto di terra, Aaron David Miller ha esaurito il prontuario delle illusioni e a Tempi spiega quant’è volatile la richiesta che il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Abu Mazen, ha intenzione di presentare venerdì 23 settembre al Consiglio di sicurezza dell’Onu: «Se anche la Palestina ottenesse il pieno riconoscimento al Consiglio di sicurezza, cosa che gli Stati Uniti impediranno mettendo il veto, cosa succederebbe il giorno dopo? Niente», ragiona Miller. «La Palestina non diventerebbe improvvisamente uno stato funzionante, né una notifica dell’Onu risolverebbe il problema del processo di pace. Sarebbe bello credere che fosse possibile, ma nulla cambierebbe. Il problema è che nel frattempo i negoziati diretti hanno dimostrato il loro enorme limite, quindi siamo in un circolo vizioso: la comunità internazionale non può risolvere il problema e gli antagonisti della richiesta palestinese invocano il ritorno al tavolo delle trattative, che a sua volta ha dimostrato di non servire a nulla. Questa è la realtà che, per motivi opposti, tutti gli attori in gioco cercano di negare».

Sul ritorno ai negoziati diretti come leva per convincere Abu Mazen ad abbandonare la candidatura alle Nazioni Unite hanno lavorato forsennatamente per settimane i rappresentanti del quartetto (Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Onu) e l’inviato speciale per il Medio Oriente Tony Blair; sempre a New York, teatro della 66esima Assemblea generale, il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, ha incontrato il primo ministro palestinese Salam Fayyad per discutere di una via sotterranea per sfuggire alla sconveniente votazione. Il segretario di Stato americano Hillary Clinton e la baronessa Catherine Ashton, alto rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, hanno giocato le loro non troppo persuasive carte. Il governo di Benjamin Netanyahu avrebbe anche accettato di vergare una proposta scritta con un linguaggio volutamente aperturista a proposito dei confini, che dovrebbero tenere conto della complessa situazione demografica nei Territori palestinesi, e sulla natura ebraica dello Stato d’Israele, richiesta che potrebbe passare in secondo piano se servisse a evitare l’imbarazzo diplomatico al Palazzo di vetro (i palestinesi negano di aver recepito tali aperture). Se l’Anp però, come sembra, continuerà a volersi «arrampicare sull’albero più alto», come dice Miller, ossia sulla richiesta della “full membership” annunciata da Abu Mazen la settimana scorsa, nessuna concessione dell’ultimo minuto basterebbe a riportare israeliani e palestinesi nel circolo vizioso delle trattative saltando il riconoscimento onusiano.

L’imbarazzo di Obama
«Di fronte alla strategia palestinese all’Onu, ammesso che di strategia si possa parlare, il problema è sempre il solito: qual è l’alternativa? Che cosa si può offrire per evitare un voto che mette in imbarazzo Israele e gli Stati Uniti? L’alternativa al momento non c’è, e non credo ci potrà essere finché nessuno ammetterà che i negoziati non sono produttivi», spiega Miller. E l’imbarazzo degli Stati Uniti, che «non vorrebbero mettere il veto al Consiglio di sicurezza, ma lo metteranno senz’altro se saranno costretti», è acuito dal sostegno finalmente esplicito dell’amministrazione Obama alla primavera araba: tendere una mano ai popoli arabi in cerca di libertà e ritrarre l’altra di fronte alle richieste dei palestinesi (richieste che formalmente corrispondono al principio dei “due popoli, due stati” accettato da ambo le parti) è «una scelta coerente dal punto di vista politico, visto che la richiesta presentata all’Onu esula dagli accordi presi, ma è uno schiaffo in faccia al mondo arabo dal punto di vista morale e della percezione pubblica», dice Miller.

Se l’iter onusiano della richiesta palestinese deve ancora prendere una forma chiara – contestualmente alla richiesta al Consiglio di sicurezza Abu Mazen potrebbe chiedere all’Assemblea generale di elevare la Palestina da “entità osservatrice” a “stato osservatore”, lo stesso di cui gode il Vaticano – altri osservatori fanno notare che altisonanti riconoscimenti internazionali e le dispute di principio che diciotto anni dopo gli accordi di Oslo non hanno prodotto stabilità e pace non rendono ragione dei due milioni e mezzo di palestinesi che vivono in Cisgiordania, del milione che vive nella Striscia di Gaza, del milione e trecentomila che vive in Israele (trecentomila dei quali a Gerusalemme est, che dello Stato palestinese dovrebbe diventare la capitale) e dei cinque milioni di profughi palestinesi in Giordania, Libano, Siria e nei Territori. Il destino dei profughi palestinesi è a un tempo fattore supremo di preoccupazione per gli israeliani, che temono di essere invasi, e per i molti palestinesi che non tifano per una risoluzione Onu che pure formalmente sarebbe in loro favore. Temono che l’inclusione generi ulteriori disparità all’interno della stessa comunità, con effetti collaterali imprevedibili.

Se gli arabi votassero
La prosa della demografia racconta una storia inaccessibile al registro rarefatto della diplomazia, alle assemblee generali, ai summit politici e alle dichiarazioni di principio. Lo aveva notato qualche mese fa Jeffrey Goldberg, giornalista del mensile The Atlantic e opinionista di Bloomberg, quando Netanyahu al Congresso americano non aveva nascosto il suo fastidio per quel riferimento di Obama ai confini del 1967. «Se fossi palestinese», scriveva Goldberg (che palestinese non è affatto), «farei del sostegno a Netanyahu la pietra angolare della mia paziente campagna per smantellare l’unico stato del mondo a maggioranza ebraica. Non solo sosterrei Netanyahu, ma anche tutti i partiti della destra radicale che sembrano ostili alla democrazia e ossessionati dalla costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania. Il mio obiettivo: unire e mischiare in modo indissolubile i due popoli stretti fra il Giordano e il mar Mediterraneo». Nel gioco paradossale d’immedesimazione di Goldberg, il palestinese immaginario smetteva a un certo punto di chiedere l’indipendenza, il riconoscimento dell’Onu, smetteva di ribellarsi all’occupazione israeliana e, anzi, faceva bella mostra di ammirare quel grandioso esperimento democratico di cui voleva assolutamente entrare a fare parte. Alla fine chiedeva una sola cosa, l’unica che le democrazie occidentali non possono permettersi di negare: «Il voto».

«Se a quel punto gli ebrei d’Israele accorderanno il voto ai palestinesi, perderanno la loro maggioranza ebraica; se lo negheranno, si darà inizio all’apartheid», concludeva Goldberg. Lo scenario dell’osservatore di Israele si appoggia sugli impressionanti dati di crescita della popolazione palestinese, dati trascurati quando le luci dell’assemblea generale sono accese, ma che pesano come macigni sulla questione del processo di pace; per questo gli osservatori più smagati, come Miller, sostengono che la richiesta dei palestinesi di fronte all’Onu sia poco più di un fattore di distrazione, un diversivo per costringere gli israeliani a qualche concessione, per mettere in imbarazzo gli americani e mostrare al mondo che i propugnatori dei “due popoli, due stati” negano il principio da loro stessi proclamato quando si tratta di votare di conseguenza. La messinscena della sedia regalata dal rappresentante palestinese al Palazzo di vetro come «buon auspicio» per l’apertura dei lavori dell’Assemblea è il coup de théâtre che spiega quanto sia forte il carattere simbolico nell’iniziativa di Abu Mazen.

Per settimane l’apparato diplomatico palestinese non è riuscito a trovare un accordo nemmeno al suo interno sulla strada da perseguire davanti alle Nazioni Unite. «È inutile cercare logica e strategia dove questi non ci sono», spiega Miller. «Il senso dell’operazione palestinese è quello di mostrare che i negoziati non portano a nulla e, come effetto collaterale, mostra che le ragioni demografiche hanno una loro parte fondamentale. In questo senso è vero: i palestinesi hanno il tempo dalla loro parte». Nel mezzo del “bid” palestinese per il riconoscimento ci sono i fermenti diplomatici degli Stati Uniti, la «verità» che Netanyahu ha promesso di spiegare dal podio delle Nazioni Unite domani e l’opposizione interna di Kadima, che con Tzipi Livni accusa il governo conservatore di avere sistematicamente eliminato ogni possibilità di negoziare con i palestinesi; Isaac Herzog, membro della commissione affari esteri e difesa nel partito d’opposizione, sostiene addirittura che, date certe condizioni accettabili da entrambe le parti, Israele dovrebbe votare a favore della risoluzione Onu.

Le Chiese orientali per il sì
Ma c’è anche la posizione delle Chiese orientali, che in un documento redatto per l’apertura dell’Assemblea generale hanno ribadito l’appoggio alla nascita di uno Stato palestinese, anche attraverso il voto delle Nazioni Unite. In particolare l’attenzione del testo, firmato tra gli altri dal patriarca latino Fouad Twal, dal custode di Terra Santa padre Pierbattista Pizzaballa e da Teofilo III, il patriarca greco-ortodosso, è sulla questione di Gerusalemme, città santa per le tre religioni abramitiche che «dovrebbe essere condivisa dai due popoli e dalle tre religioni».
L’analista palestinese Ali Abunimah, autore di One Country. A Bold Proposal to End the Israeli-Palestinian Impasse, su Foreign Affairs spiega che molti settori radicali della società palestinese sono contrari all’iniziativa diplomatica di Abu Mazen. C’è chi non accetta i confini del 1967 in nome di quelli del 1948 e chi teme che le limitazioni sul ritorno dei rifugiati confermino di fatto l’esistenza e la supremazia dello Stato ebraico. Ma i moderati sono freddi sulla proposta di Abu Mazen per il semplice fatto che non ne conoscono i tratti: «A pochi giorni dalla presentazione ufficiale della candidatura all’Onu, il pubblico palestinese è all’oscuro di ciò che esattamente l’Autorità stia proponendo. Nessun testo è stato mostrato al popolo, mentre è stato negoziato con gli sponsor dell’Autorità stessa, come se loro, e non il popolo, fossero la vera fonte della rappresentanza». «Geografia, demografia e potere politico guidano la storia, non tutto si può spiegare in termini di etica, morale e memoria», dice Miller, includendo nell’elenco anche la rappresentanza, il sistema fiscale e tutto ciò che materialmente occorre per fare uno stato che non sia esclusivamente un’espressione onusiana. Così la richiesta palestinese rischia di trasformarsi in una dolorosa formalità senza reali benefici per il popolo, e l’opposizione israeliana in un ostinato rifiuto della linea formalmente appoggiata: un circolo vizioso che, secondo Miller, potrà essere spezzato «soltanto quando le parti si decideranno a confrontarsi con la realtà».

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