
Sotto il sole di Genova, un’ilare deriva
Ho partecipato al corteo anti-G8 di sabato scorso senza accredito giornalistico, da semplice manifestante, uno dei 200 mila che hanno attraversato sotto il martello del sole le vie di Genova. Jeans, maglietta e tascapane di traverso. Ho camminato ore sotto le bandiere di Rifondazione Comunista, Cobas, Fiom, Verdi, Attac, Lega Ambiente. Ho marciato dietro gli striscioni di Rete Lilliput, Emergency, Greenpeace, Mani Tese. Ho mentalmente appuntato le magliette di zapatisti, centri sociali, cattolici terzomondisti, ambientalisti, guevaristi. Ho sentito parlare greco, inglese, francese, tedesco, curdo, spagnolo, olandese. Ho visto ventri e ombelichi femminili di tutte le razze, età, forme e dimensioni. E piercing. E dreadlocks e crani rasati.
Cattolici irrilevanti sommersi dai comunisti
Ho sentito cantare l’Internazionale in greco e in inglese, Bandiera Rossa, Bella ciao. Ho visto puliti ragazzi e ragazze di Rete Lilliput, maglietta bianca col globo del mondo e le alette blu, cattolici terzomondisti la cui religione è il pacifismo, ballare sulle note di Bella Ciao che l’orchestrina del corteo suonava; portare il labaro dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani di Busto Arsizio; uno di loro –stampelle e croce francescana al collo (l’unico del corteo)- inveire contro i poliziotti: «Vergogna, servi, liberatevi!». Ho scrutato giovani e adulti di Rete Lilliput sorridenti, muti, tranquilli, circondati dalle bandiere rosse di Rifondazione, Ligue Communiste Revolutionnaire, KKE greco (ultrafilosovietici che hanno applaudito gli interventi dell’Armata rossa in Ungheria, Cecoslovacchia e Afghanistan), Socialist Workers Party britannico, e quella di Cuba; assordati dagli slogan comunisti, incessanti, in molte lingue. «Resist, revolt, fuck capitalism. Resist, revolt, fuck Berlusconi». Ho notato ragazzi con sottili bastoni di legno su e giù per il corteo; maschere antigas verdi e nere che pendevano dalle cintole; caschi da motociclista, da operaio edile, di cartone e adesivo; bandane che diventavano fazzoletti per nascondere il volto; il corteo attraversato da motociclisti che spuntavano da chissà dove. Ho sentito bisbigliare allarmi fra francesi e italiani di Attac: «Là dietro abbiamo visto gente che parla francese armata di sassi».
Grazie, Manu Chao, per nostra sorella acqua
Ho preso la bottiglietta d’acqua che mi tendeva un manifestante di Rifondazione. Ho visto neonati alla finestra in braccio alla madre tendere il braccino col pugno chiuso, il corteo di sotto in delirio. Ho rovesciato sulla mia testa arroventata l’acqua della bottiglia prelevata alla mensa del Genoa Social Forum «a disposizione gratuitamente grazie alla generosità di Manu Chao e dell’Associazione Psycho», c’era scritto. Ho bevuto l’acqua della bottiglietta offerta gratis al santuario di Boccadasse a chi partecipava al digiuno «inteso come riflessione critica sul nostro stile di vita…, solidarietà sofferta con gli 800 milioni che soffrono la fame… denuncia forte e chiara nei confronti dei Grandi…che hanno assunto come valore massimo il profitto…». Ho visto da piazzale M.L. King la colonna di fumo dei lacrimogeni che si alzava da piazzale J.F. Kennedy. Il corteo dividersi fra i tanti che guardavano da lontano, quelli che correvano verso la battaglia, quelli che svoltavano in corso Torino, quelli di Lilliput che intonavano come automi «Non violenza! Non violenza!». Un manifestante che da solo dava l’assalto ad un negozio, cento che senza alzare un dito gridavano «non violenza!», uno che lo prendeva per il collo e si azzuffava con lui per impedirgli di rompere i vetri, e ci riusciva. Ho lasciato la piazza appena in tempo per evitare la carica della polizia.
Violenza: non solo tute nere
Ho visto le tute nere, immobili a scrutare la battaglia. Ho visto uomini senza tute e il fazzoletto sul volto distruggere la concessionaria Italauto in via Beccari, angolo Corso Marconi. Tanti che guardavano lo spettacolo senza fiatare. Un ragazzo degli spettatori che ha preso una grossa pietra e l’ha lanciata sul parabrezza di un furgone, senza spaccarlo. Un altro mascherato che stava per essere picchiato dai suoi perché li riprendeva con una telecamera. Un giornalista di Rai 3 che all’altro capo di via Beccari intervistava tranquillo qualcuno. Sono tornato nel corteo, ho risalito Corso Torino fino all’imbocco di Corso Sardegna, dove hanno distrutto un ufficio postale. Cantavano, ballavano. Me ne sono andato da solo verso Piazza Alimonda, ho fotografato i fiori sul selciato dov’era caduto morto Carlo Giuliani. Non c’era nessuno, nessuno. I cristalli delle banche devastati in via Cavallotti. Sono tornato fino al santuario di Boccadasse. Fuori c’era una suora anglicana settantenne vestita da giullare coi palloncini gialli e arancioni, l’adesivo “Cancella il debito”, seduta. Dentro un pastore evangelico donna: «Dio ci salva dalla morte. Soprattutto non lascia morire in noi la speranza. La speranza che un mondo diverso è possibile». Sopra l’altare, sopra gli stucchi neoclassici e la statue di legno popolane di Sant’Antonio e della Vergine, uno stendardo con un crocefisso che non è Gesù. Inchiodato a una zappa e un forcone incrociati un campesino cileno. «Verso una Pasqua di resurrezione per tutti». Millenarismo, millenarismo, millenarismo.
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