Terra di nessuno

Sotto il ghiaccio, un’inquietudine nel gelo

Di Marina Corradi
10 Febbraio 2012
Il grande freddo che strozza nella notte il getto di una fontana, che spezza i germogli prematuri, è immagine della morte: il tempo è stato colto in un’imboscata da un nemico che, muto, si è messo di traverso al suo cammino. Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi che appare sul numero 6/2012 di Tempi in edicola.

Pubblichiamo la rubrica di Marina Corradi che appare sul numero 6/2012 di Tempi in edicola.

Milano, 1 febbraio. Il getto della fontanella si è irrigidito in una lama trasparente, i germogli di forsizia avventatamente sbocciati anzitempo sono chini sui rami, come decapitati. Le cornacchie volano basse, lasciano brevi impronte sulla neve e si rialzano deluse: niente, nemmeno un insetto da mangiare. Che gran silenzio questa mattina al parco Sempione, nella luce candida, mentre la città dorme ancora. Solo il crac del ghiaccio che si spezza sotto ai piedi ci accompagna. Indurite nel gelo le orme di qualcuno che è passato ieri, o all’alba, e di cui non c’è più traccia nei viali. Ed è bellissimo stamattina il Sempione nell’aria che taglia, nel vapore dei respiri. E però c’è come qualcosa, dentro a questo gelo, di dolente, di inquieto; come un affievolito segnale di allarme nel sistema che regge e governa il battito del cuore, il fluire del sangue e i pensieri. 

Mi piace, la neve venuta da sovrana a prendersi il giardino; e ho scarpe impermeabili e robuste, e il cappotto è caldo, e nei guanti le dita si muovono agili nei sei gradi sottozero. Cos’è, allora, questo fondo di malinconia irrequieta? Avevo un libro illustrato di fiabe, da bambina, con un grande bellissimo disegno di un paese rimasto prigioniero di un incantesimo. Si vedeva un villaggio con un castello, le case, le piazze, e ogni cosa era pietrificata nel ghiaccio; le piante, perfino gli uomini per strada, tutto era stato paralizzato in un istante – i bambini immobili, le braccia alzate nell’atto di saltare e giocare. Il parco questa mattina somiglia a quel disegno (curioso come certe immagini da tempi remoti restino nella memoria, pronte, a un richiamo, a scattare).
Ma quella fiaba diceva qualcosa di oscuro e di vero. Il grande gelo che strozza nella notte il getto di una fontana, che spezza i germogli prematuri, è immagine della morte: il tempo è come stato colto in un’imboscata da un nemico che, muto, si è messo di traverso al suo cammino.

Bellissimo questo candore, e il silenzio che assorbe e vela ogni rumore. Eppure avverto sempre sotto, in fondo, quel pensiero che duole. Il gelo è ostile ai viventi. Mi viene in mente mio padre che, ormai lontani i giorni della ritirata sul Don, ancora davanti alla neve si incupiva: gli passava sulla faccia un’ombra di angoscia. Mi viene in mente ancora lui, il giorno che è morto, e io sono andata in ospedale, e ancora non avevo veramente realizzato. Gli ho accarezzato una mano e con un sussulto l’ho sentita gelida: e solo allora, con sgomento, ho capito. 

Quel freddo, è lo stesso che mi lambisce stamattina e ammutolisce insieme agli uccelli anche me, in un silenzio devoto. Ciò che rende sostenibile e perfino affascinante il culmine dell’inverno non è, in realtà, che la certezza che fra un mese la fontana tornerà a gorgogliare, e le forsizie fioriranno. Ciò che rende sostenibile la morte è solo la fede che ci sarà, la resurrezione.

 

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