Sono pentito di aver pensato male dei preti

Di Renato Farina
13 Aprile 2020
Confesso che li ho calunniati con perfide battute sul loro rinchiudersi in canonica per l'emergenza. Mi sbagliavo. Non hanno mai smesso di lavorare. E di morire

Articolo tratto dal numero di aprile 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

In questi tempi grami il Papa ha consigliato ai suoi figli cattolici di confessarsi direttamente con Dio, in attesa di farlo con un prete. Noi molokani siamo senza preti, siamo gente così, eretici ortodossi. Ma abbiamo sempre invidiato questa possibilità vostra di parlare direttamente con Gesù e chiedergli perdono, essendo il prete in quei minuti “in persona Christi”, tale e quale Lui, anzi in qualche modo proprio Lui.

Io confesso al Signore direttamente, ma mi indirizzo immediatamente anche a voi, fratelli, essendo persuaso che in questi momenti popolo e Dio coincidano più che mai: vox populi vox Dei.

Ed allora confesso questo. Ho pensato male dei preti. Li ho interiormente calunniati, compiacendomi della loro supposta decadenza morale. E ho pure riferito sottovoce e con qualche perfida battuta l’idea che volessero sfangarsela, non dicendo Messa, chiudendosi in canonica, sbarrandosi un a-tu-per-tu con Dio privilegiato, con l’alibi che comunque la loro Santa Messa buca le pareti e ha un valore universale. D’accordo. Ma così noi che non abbiamo le mani consacrate non vediamo e non tocchiamo, non ci nutriamo sentendo quel gusto azzimo sul palato. I preti presso il tabernacolo e chi non ha mani consacrate, tagliato fuori. Mi rendo conto: sono molto materialista. Ma mi veniva detto dentro di me: altro che chiese in uscita, si sono rinserrate, protette dai propri bastioni. 

Sono pentito. Confesso non l’invidia per chi ha ricevuto il potere di trasformare sotto i propri occhi, tra le proprie mani il pane e il vino nel corpo e nel sangue di Cristo: questa sarebbe santa invidia, un desiderio che misteriosamente anche gli atei talvolta hanno. Confesso piuttosto la calunnia, la superbia.

Non è un gioco letterario. Sono serio. Ci voleva poco a capire che non era vero. Se infatti i sacerdoti evitavano (evitano ancora mentre state leggendo?) la Messa coram populo per ragioni di preservazione dal contagio dei deboli e di chi si crede forte, essi obbedivano alle disposizioni non dello Stato ma delle diocesi, e non certo per viltà o scarsa fiducia nella potenza dei sacramenti.

Intanto, però, mentre si tenevano lontani dal popolo inteso come moltitudine, stavano attraversando con tutto se stessi, nel nascondimento, ma non da fantasmi, bensì con corpo, sangue, anima e umanità, le barriere della sicurezza, visitando le case dove il virus li aveva preceduti. E non per esporre gli altri al pericolo, ma se stessi.

Quanti ne sono morti di preti? Ce ne saranno ancora quando le chiese saranno spalancate e si potrà partecipare alle liturgie? Diciotto missionari saveriani dopo aver sfidato guerre e malattie in Africa, Asia, Amazzonia hanno lasciato spegnere la loro fiammella della vita mortale dalle dita degli angeli e di Francesco Saverio, in silenzio, senza invocare respiratori, chiamare ambulanze, nella loro casa generalizia a Parma.

Per me hanno il volto di padre Andrea Galvan di cui facevo il chierichetto, prestato dai molokani alla parrocchia, per la Messa domenicale delle 7, meglio se d’inverno prima dell’alba, perché gli vedevo la barba brinata dalla corsa in bicicletta, tre chilometri di gelo: mi insegnò che il primo gesto del mattino fosse il segno della croce. Era convinto, ottantenne, che sarebbe riuscito a tornare dai suoi figlioli e amici in Cina. Missionario sempre, anche se impedito di andare in uscita dove il suo cuore ardeva.

Vale oggi per i preti. Tutti? Sono come noi molokani, tante volte deboli. Mai come in questo periodo però ha preso forza la loro grazia di stato. Nella Bergamasca almeno 20 mentre scrivo, in tutta Italia più di 70. Essendo i sacerdoti (secolari e regolari) uno su novecento del milione di bergamaschi, se ci fossero stati decessi con la stessa media saremmo a 22 mila morti, e un milione e duecentomila in Italia.

Che cosa vuol dire? Che questa gente lavora. Non sa fare altro. Sta a casa sua. Ma la sua casa non è la canonica, neppure l’edificio in mura del tempio. Abita nell’ovile che è la sua comunità, spersi nel gregge. Con prudenza. Pronti a evitare ogni forma di tentazione, la peggiore delle quali è cercare il martirio, per cui si lavano, si rilavano, mettono i guanti, stanno a distanza, ma capaci di servire, lavare i piedi ai vecchi, soprattutto ai vecchi, portando i sacramenti se possono, appena possono, sfuggendo ai delatori che li vorrebbero incarcerare, sterilizzare, mummificare nelle cripte come ossa antiche e intatte.

Foto Ansa

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