
Socialisti primi in Catalogna, ma sempre sotto ricatto dagli indipendentisti

Come era nelle previsioni, il Partito socialista di Catalogna (Psc), versione catalana del Psoe di Pedro Sánchez, ha vinto le elezioni regionali del 12 maggio e con tutta probabilità governerà la regione autonoma, ma non potrà fare a meno di un accordo capestro coi principali partiti indipendentisti.
Questi ultimi nel loro complesso hanno ottenuto il peggior risultato dalle prime elezioni regionali post-franchiste del 1980 (se consideriamo pro-indipendenza i partiti che a quel tempo si presentavano come autonomisti e poi negli anni hanno avuto una metamorfosi indipendentista), ma dispongono di un potere di ricatto notevole, perché a Madrid garantiscono la maggioranza del governo nazionale guidato da Sánchez: a Barcellona i socialisti, pur avendo vinto le elezioni con più di sei punti di vantaggio sul secondo partito, non dispongono della maggioranza assoluta, e dovranno necessariamente trovare un accordo con i sostenitori del referendum illegale del 2017 se non vogliono che si torni alle urne nella seconda regione più popolosa della Spagna. E soprattutto se non vogliono che gli indipendentisti catalani facciano cadere il governo di Madrid.
Indipendentisti male, costituzionalisti non abbastanza bene
Indubbiamente il risultato delle formazioni indipendentiste è stato scadente: solo Junts per Catalunya, il partito centrista del latitante Carles Puigdemont, ha visto aumentare i propri seggi da 32 a 35; Erc, il partito della sinistra repubblicana che esprimeva il governatore della regione Pere Aragonès, ha perso più di un terzo dei suoi seggi, scendendo da 33 a 20; i marginali Cup (estrema sinistra antisistema) e Aliança Catalana (estrema destra) ne hanno raccolti rispettivamente 4 e 2.
Questo significa che nel parlamento regionale composto da 135 seggi i partiti favorevoli all’indipendenza catalana (e che tuttavia non potrebbero formare una coalizione di governo per insuperabili differenze ideologiche) detengono solo 61 seggi. Le forze costituzionaliste, cioè favorevoli al mantenimento dell’attuale autonomia o a una sua riforma in senso restrittivo, occupano i rimanenti 74 seggi, ma anch’esse non sono compatibili per una maggioranza di governo.
Chi nell’urna in Catalogna ha cambiato partito e perché
Dopo i socialisti guidati da Salvador Illa, premier in pectore della regione dopo la vittoria elettorale, che hanno conquistato il 28 per cento dei voti e 42 seggi, troviamo al quarto posto nei risultati generali il redivivo Partito popolare, che passa dai miseri 3 seggi del 2021 a 15, moltiplicando per cinque voti e seggi. Segue Vox, che non perde affatto suffragi a favore dei popolari, ma anzi guadagna qualche voto e qualche decimale, passando dal 7,7 all’8 per cento dei voti e conservando i suoi 11 seggi. Costituzionalista è anche la sinistra populista di Comuns Sumar, che perde due seggi e scende da 8 a 6, mentre restano fuori dal parlamento regionale i liberali di Ciutadans, che tre anni fa avevano 6 seggi.
I flussi elettorali sono abbastanza leggibili: c’è stato un forte travaso di voti all’interno della sinistra da Erc e in misura minore da Comuns Sumar verso il Psc; il Partito popolare (Pp) assorbe tutto l’elettorato di Ciutadans ma non solo, probabilmente attrae anche socialisti delusi dall’accordo Sánchez-Puigdemont e dalla prospettiva dell’amnistia per i fatti del 2017, ma il Psc non ne risente perché nel frattempo drena l’Erc. L’elettorato di Vox appare stabile.
L’autocandidatura del solito Puigdemont
In base ai risultati del 12 maggio la maggioranza di governo più naturale sarebbe una coalizione di sinistra che ai seggi del Psc sommasse quelli di Erc e Sumar, ottenendo così i 68 seggi che sono il minimo della maggioranza assoluta. Così però resta fuori Junts per Catalunya, che coi suoi 7 seggi nazionali a Madrid garantisce la maggioranza di governo a Sánchez in cambio dell’amnistia (ferma per adesso in Senato, ma che sicuramente sarà varata entro se non prima dell’estate) e di vaghe promesse su un referendum di indipendenza concordato con le autorità nazionali.
Puigdemont ha già lanciato segnali: intende far parte della maggioranza di governo e fra le righe si candida addirittura a governatore al posto di Illa, facendo notare che la differenza di seggi fra socialisti catalani e Junts è la stessa che esiste a Madrid fra popolari e socialisti nazionali. Tradotto per i non addetti: se a Madrid governa il partito secondo arrivato alle elezioni del luglio scorso, non sarebbe strano che a Barcellona il presidente della regione risultasse il leader del partito secondo classificato. Puigdemont ha anche fatto sapere che si presenterà alla cerimonia di investitura del nuovo parlamento regionale, il che potrebbe creare un caso, se ancora l’amnistia non sarà entrata in vigore: verrebbe arrestato in base a un mandato di cattura che esiste da parecchio tempo.
Le possibili geometrie di governo in Catalogna
I commentatori più critici nei confronti del governo nazionale di Pedro Sánchez si dicono convinti che, nonostante le dichiarazioni ufficiali (in base alle quali a decidere le alleanze di governo in Catalogna sarà autonomamente il Psc), il Psoe sacrificherà Illa e gli chiederà un passo indietro per permettere a Puigdemont di rioccupare la carica che dovette abbandonare nascosto fra i sedili di una Skoda nel 2017 per non essere arrestato: tutto questo per salvare il governo socialista a livello nazionale. Altri prevedono un monocolore socialista garantito dall’appoggio esterno di Junts ed Erc, o addirittura una coalizione dei tre partiti con Illa presidente e Puigdemont e Aragonès vicepresidenti.
Le probabilità che i catalanisti facciano cadere il governo di Madrid se non si consegnano loro le cariche più alte a Barcellona sarebbero vicine allo zero: in eventuali elezioni anticipate le probabilità di un successo del centrodestra, che nel luglio scorso aveva già ottenuto il 45,4 per cento dei voti se si sommano Pp e Vox, sarebbero molto alte. E a quel punto Puigdemont e i suoi collaboratori l’amnistia se la sognerebbero.
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