
Siria. Dopo sette anni di guerra, anche Repubblica cambia idea sui “ribelli”

Dopo sette anni di guerra sanguinosa, la speranza è che il 2018 possa portare la pace nella terra martoriata di Siria. Ma non sarà semplice. Nonostante lo Stato islamico abbia perso la maggior parte dei territori che deteneva fino soltanto a un anno fa e sia fortemente indebolito, contrariamente alle forze del presidente Bashar al-Assad, che grazie all’aiuto di Russia e Iran rafforza ogni mese che passa la sua posizione, ci sono delicati fronti del conflitto ancora aperti.
TRE AREE CALDE. I combattimenti più feroci si concentrano in tre aree principali: Ghouta Est, enclave dei cosiddetti ribelli alle porte della capitale Damasco; le regioni di Idlib e Hama nel nord-ovest della Siria, dove è ancora forte la presenza di gruppi terroristi islamici; la regione orientale del Paese che si estende lungo il corso dell’Eufrate, dove le ultime milizie dell’Isis ancora non si danno per vinte. Nel sud del paese invece, dove pure ancora permangono le ostilità, sembra reggere la de-escalation prevista dal memorandum di Astana, firmato da Russia Iran e Turchia, che ha individuato in tutto il paese quattro “zone cuscinetto” in cui dovrebbero essere vietate «ogni tipo di ostilità» fra ribelli e truppe governative.
CONTINUA LA GUERRA. La lotta senza quartiere al terrorismo invece può continuare secondo gli accordi. È per questo che negli ultimi giorni sono ricominciati feroci combattimenti a Ghouta Est dove i terroristi di Ahrar al-Sham hanno rafforzato la propria presenza a fianco dei ribelli del Libero esercito siriano. Allo stesso modo si combatte a Idlib, controllata dai jihadisti di Al-Qaeda (Al-Nusra), e lungo l’Eufrate tra Al-Mayadin e Al-Bukamal dove l’esercito di Assad e le milizie di curdi appoggiate dagli Stati Uniti non sono ancora riuscite ad avere la meglio.
SFORZI PER LA PACE. Dal punto di vista politico, sono tre i tentativi ancora in corso di raggiungere una pace attraverso la diplomazia. Il primo canale è quello dei colloqui di Ginevra, cominciati nel 2012 per volere dell’Onu e che non hanno mai portato a nulla, soprattutto per la volontà dei ribelli, reiterata e ormai irrealizzabile, di porre come pre-condizione ad ogni accordo le dimissioni di Assad.
Il secondo canale è quello dei colloqui di Astana, in Kazakhstan, proposti dalla Russia e partecipati, oltre che da Turchia e Iran, anche da diversi gruppi militari presenti sul terreno siriano. A maggio è stato raggiunto l’accordo sulle “zone cuscinetto”, che non ha portato però a una vera interruzione degli scontri.
Il terzo canale, infine, è quello dei colloqui di Sochi, sempre proposti dalla Russia e che dovrebbero vedere la luce a fine gennaio.
BENVENUTA REPUBBLICA. È difficile dire quale risultato verrà raggiunto dagli sforzi diplomatici e militari dei protagonisti. Di sicuro, nell’ultimo anno, è finalmente cambiata la posizione di molti giornali internazionali sulla guerra. Dopo oltre sei anni di propaganda, a giugno dell’anno scorso l’inviato del New York Times ad Aleppo si è reso conto che la popolazione non appoggia affatto i ribelli, che vengono chiamati chiaramente «jihadisti» che hanno distrutto la città. Pochi giorni fa, anche Repubblica ha scoperto che l’Osservatorio siriano per i diritti umani è «fazioso», usa «due pesi e due misure» e «non si accorge dei crimini dei cosiddetti “ribelli”, che usano i civili come scudi umani». Sono passati sette anni dall’inizio della guerra. Meglio tardi che mai.
Foto Ansa/Zuma
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