Simone. Questa giustizia fa paura. Perché nessuno fa nulla?

Di Antonio Simone
22 Settembre 2012
Pubblichiamo il testo di Antonio Simone che è stato letto durante l'incontro "Aspettando giustizia". «È più importante il giudizio di merito espresso in un processo oppure la carcerazione preventiva?»

Pubblichiamo il testo di Antonio Simone che è stato letto durante l’incontro “Aspettando giustizia“. Simone ci tiene a far sapere che il seguente testo è condiviso da molti altri detenuti di San Vittore.

Il problema della carcerazione preventiva è, da un punto di vista giuridico, una questione semplice: è più importante il giudizio di merito espresso in un processo oppure la carcerazione preventiva?
Pare evidente a tutti che al termine di un percorso non possa che essere la sentenza finale ad avere la maggiore importanza soprattutto per un motivo banale: la sentenza può essere di assoluzione, la carcerazione preventiva no! Quest’ultima è definitiva in quanto scontata, attuata, non è più modificabile e non si può più recuperare. Da qui l’eccezionalità della misura voluta dalla giurisprudenza.

Rileggiamo cosa dice a riguardo il vicepresidente del Csm, egregio professor Michele Vietti in una intervista recentemente apparsa su Tempi: «La carcerazione preventiva in un Paese normale dovrebbe essere l’extrema ratio cui si ricorre solamente in ipotesi eccezionali e residuali. Purtroppo la irragionevole durata dei processi, il meccanismo perverso della prescrizione, rendono spesso impossibile l’accertamento definitivo della responsabilità penale e la irrogazione della pena finale. Questo non giustifica ma spiega il ricorso anomalo alla carcerazione preventiva».
Dunque, se non ho mal compreso, proprio la lunghezza dei processi, il rischio incombente di prescrizione imperante nei procedimenti, comportano l’espiazione di una “pena preventiva”, ben sapendo o ben potendo immaginare, chi la richiede e chi la concede, che il reato si prescriva perché lo Stato non è in grado di dettare tempi certi e ragionevoli al giusto processo ecco perché si fa un abuso dell’istituto della carcerazione preventiva.

Oggi la carcerazione preventiva vale più del giudizio.

L’ultima trovata, vero oggetto di violenza procedurale, è l’uso del “giudizio immediato” per raddoppiare i tempi della carcerazione preventiva. Una pena, finalmente doppia senza sindacabilità che vale molto più di un processo. Il processo non conta più. Contano i pm, veri promotori della scelta dei reati da perseguire, dei soggetti da incarcerare, oltre ogni giudizio finale. Una pena finalmente eseguita, irrecuperabile.
L’istituto oggi della carcerazione preventiva è uno strumento di tortura utilizzato per estorcere confessioni, ammissioni di colpevolezza, costruire prove muovendo dal momento dell’arresto da congetture, da “sentito dire” da “relata refero” da interpretazioni della pubblica accusa in merito alla psicologia che ha mosso il presunto colpevole a commettere un reato doloso ovvero ad aver omesso di fare ovvero a disegnare una colpa che non c’è su un reato colposo.
Si parte da un disegno preconfezionato dall’accusa che ha mirato e tira il colpo diritto in testa alla vittima sacrificale predestinata con un giudice delle indagini preliminari che esprimere il suo giudizio “preliminare”, spesso forse frettoloso, su una montagna di carta raccolta dalla pubblica accusa in mesi e mesi di indagini.

Giudizio che si traduce in un ordine di custodia cautelare in carcere.
Il giudizio espresso da quello della porta accanto al pm, con cui probabilmente mangia insieme, o con cui dibatte quotidianamente sulla politica, sulla ideologia, sulla vita, con cui condivide carriera, giudizi di merito… due soggetti che dire intrecciati nella vita e nel destino è dir poco.

È evidente, “mai fare di tutta l’erba un fascio”. Esistono signori pubblici ministeri professionali, onesti intellettualmente e leali, non appiattiti sulle tesi della polizia giudiziaria spesso “deficitaria e superficiale”, disponibili ad ascoltare le istanze difensive e al confronto nel rispetto reciproco dei ruoli. Ci sono pubblici ministeri, “non manettari”, che rendendosi conto della “normalità e non pericolosità dell’indagato”, richiedono uno o più interrogatori che precedono eventuali richieste cautelari andando a depotenziare l’esigenze di cautela e a scongiurare il pericolo detentivo.
Ci sono, poi, i “pm manettari” e, purtroppo, non sono pochi. Evitano ogni confronto dialettico, cooperativo, nello spirito della ricerca della Verità. Pubblici ministeri che, confezionando il pacchetto accusatorio su basi spesso infondate totalmente, avanzano richieste di misure cautelari, dimenticando in carcere dopo 1 o 2 interrogatori l’indagato per giorni, per mesi fino alla scadenza termini, per poi – qualche giorno prima della effettiva scadenza – avanzare richiesta di giudizio immediato con raddoppio dei termini custodiali inducendoti a patteggiare, ad ammettere delle colpe che non hai, altrimenti resti in galera e ti fai il processo da carcerato.
Sotto l’alibi della natura fluida delle indagini preliminari e della inevitabile sommarietà degli accertamenti probatori che ne consegue, non raramente si assiste infatti all’attribuzione del carisma della gravità in capo ad elementi, indizianti a dir poco ambivalenti i quali, per essere ritenuti idonei alla formulazione di una qualificata prognosi di condanna nel futuro giudizio, necessiterebbero di una prova di “resistenza” non sempre offerta o mai offerta dalle risultanze investigative.
E intanto il giudice della porta accanto al pm emette l’ordinanza di custodia cautelare e ti ritrovi in galera.

E qui inizia il calvario, iniziano prassi contra-legem che imperversano nei nostri tribunali, gli interrogatori, le istanze rigettate di misure alternative al carcere fatte a fotocopia, stessa terminologia, stessa punteggiatura, frasi di rito su casi e personalità di indagati del tutto differenti e non comparabili.
Il ricorso al Tribunale della Libertà con il deposito delle motivazione di un rigetto per il 99,9 per cento dei casi, depositate dopo mesi e mesi, e intanto resti in galera con quella promiscuità stupida e teoricamente vietata tra “giudicandi” e “definitivi”, compresi quelli che abbiano nella loro scheda il “fine pena mai” la cui sola lettura dovrebbe far rabbrividire anche i bravissimi alchimisti del diritto, che riescono addirittura a “sostenere” persino la compatibilità dell’ergastolo con la funzione rieducativa della pena.

Ebbene, ai detenuti in attesa di giudizio viene sostanzialmente inflitta una pena in corso di causa – ovvero a causa non ancora incominciata – che in gran parte dei casi in considerazione dell’esito del processo (assoluzione, prescrizione, sospensione condizionale della pena, indulto, misure alternative, affidamento in prova etc) non dovranno mai espiare.
Una realtà che quotidianamente viviamo, totalmente distante dalla teorica Carta costituzionale.
Una casta di “pm manettari” che si arrogano, senza che nessuno faccia o dica nulla, il diritto di usare in modo distorto il diritto.
Una realtà nascosta che non si vede, protetta nei palazzi di giustizia, un nemico invisibile con nomi e cognomi noti solamente al malcapitato che si trova catapultato nel tritacarne, che agisce nell’inerzia delle istituzioni e dei poteri che dovrebbero riequilibrare, che dovrebbero controbilanciare che dovrebbero regolamentare la misura e vigilare sull’applicazione eccezionale – “extrema ratio” dice il vertice del Consiglio superiore della magistratura – dell’istituto della carcerazione preventiva.

Cosa significa in Italia la difesa di un uomo privato della libertà e incarcerato? Ha valore zero rispetto all’accusa fino a che non ci si confronta di fronte ad una corte e intanto per mesi o anni ti hanno, “sequestrato”, “stuprato nel corpo e nella mente”, “estorto” e annullato.

L’indagato dovrebbe essere innocente fino alla condanna definitiva.

Un indagato con cui probabilmente dovremmo scusarci di averlo incriminato, ove risultasse innocente a sentenza emessa da una Corte, distruggendogli la vita presente e futura, “ammazzando” la famiglia, i figli.
Senza ovviamente risarcirlo della detenzione subita, senza rimborsargli le spese legali che ha sostenuto per difendersi da accuse risultate infondate e talvolta infamanti, senza consentirgli neanche la detrazione fiscale.
Sempre che vi siano gravi indizi di colpevolezza e si tratti di reati gravi con certe pene detentive, è necessario riscontrare se esistono per davvero le esigenze di inquinamento probatorio, il pericolo di fuga, di reiterazione del reato.

La prassi giudiziaria, deformando lo spirito e la lettera della legge, che invece intendeva contenere gli eccessi di carcerazione preventiva, tende a ravvisare troppo spesso la concretezza di questi requisiti sicché la misura cautelare è così diffusa che in molte strutture carcerarie miste il numero dei detenuti “giudicandi” supera quello dei definitivi!
Eppure ci sarebbero altre misure meno afflittive, più che idonee a tutelare le esigenze cautelari indicate nell’articolo 274 cpp: gli arresti domiciliari, divieto dell’obbligo di dimora etc. etc.

Il carcere doveva essere l’extrema ratio e invece per i “pm manettari” è diventata la norma.

Ciò accade sicuramente nel palazzo di Giustizia di Milano, con tutti i distinguo essendoci ovviamente anche lì pm equilibrati, leali e corretti che non si sentono unti dal “Signore del diritto” a cambiare il mondo e a ripulire un mondo da uomini e vite che secondo il loro insindacabile, arbitrario giudizio, frutto del loro “background e filosofia”, sono da abbattere, da annullare, da eliminare.

Il nostro sistema giudiziario complessivo, ormai inondato da una moltitudine ingestibile di cause, si regge su decisioni provvisorie e urgenti in ogni settore (in sede penale la custodia cautelare appunto, in sede civile i provvedimenti di urgenza, in sede amministrativa l’uso della “sospensiva”).
Tutto questo fa a cazzotti con i canoni giuridici, ai quali di dà – nell’urgenza – solamente un’occhiata superficiale; con le conseguenze inevitabili sulla qualità dei provvedimenti giudiziali specialmente per quel che attiene all’anticipata privazione della libertà personale.

Ma perché nessuno fa niente?

antonio simone tempiPerché magistrati e legislatore non si adoperano per porre fine a queste storture, alla strapotere dei pm manettari?

A cosa servono le medioevali mortificazioni personali, la promiscuità giudicandi-definitivi, vessatori spazi claustrofobici per un presunto innocente, inimmaginabili soprusi e angherie di ogni tipo che un “incensurato e presunto innocente” è costretto a subire nel periodo custodiale ogni minuto della giornata?
Ma dove è il nostro legislatore bacchettato dai molteplici e severi giudizi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha condannato lo Stato italiano, con molteplici sentenze anche recenti, per violazione dei diritti dell’uomo in tema di carcerazione in generale e – figuriamoci – in tema di custodia “cautelare”?
Ma dove e come viene applicato l’articolo 13 della Costituzione italiana e il pronunciamento della Consulta che ha richiamato il favor libertatis dell’articolo 13 della Costituzione, insieme al dovere di infliggere al presunto innocente il minore sacrificio necessario (pronunciamento del 2011 del 2010 e indietro nel tempo)?

Ma perché nessuno fa nulla?

Un paese che ha un presente di inciviltà che ha distrutto un passato e una storia di secoli e secoli di civiltà.
Inutile negare che questo strapotere dei pm è iniziato con Mani Pulite ma sicuramente è strabordato nell’era berlusconiana, senza che gli stessi governi di centrodestra abbiano mai posto limiti seri, perché solo la giustizia di un giusto processo potesse essere più importante delle ideologie dei pm.
In conclusione, a fronte delle dichiarazioni del professor Michele Vietti, vicepresidente dell’organismo di vigilanza della magistratura, non si comprende perché, unitamente al Capo dello Stato, presidente dell’organismo di vigilanza della magistratura, l’organismo di vigilanza della magistratura non intervenga a tutela della supremazia del giusto processo rispetto alla carcerazione preventiva, a difesa del popolo italiano e cioè di tutti.

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