
Si sta come nelle trincee della Grande Guerra. Abbonatevi a Tempi

Dopo oltre vent’anni di entusiasmante saliscendi, soddisfazioni, fallimenti e un finale di rinunce crudeli, come si fa a non inchinarsi alla mezza dozzina di giornalisti che ancora stringono la cintola e devono proprio aver visto qualcosa che vale la pena in questa testata battezzata nel lontano 1994, se nonostante tutti i casini ricevuti seguitano a rendersi protagonisti di un lavoro di informazione bello, ragionato e puntuto?
Cento anni dopo la prima Grande Guerra mi è venuta tra le mani un’autobiografia dentro quella guerra di un poeta geniale e fegatoso, che da una vita di aristocrazia anglo-germanica (e scuole private della Regina) si catapultò volontario nelle trincee del Grande Macello (tra i 15 e i 17 milioni di morti, di cui oltre 1,2 italiani).
Cosa c’entra la trincea di una guerra tremenda con l’abbonamento a un giornale che naturalmente benedico come cosa buona e ovvia, tanto più se, come propugna il cardinale di Milano Mario Delpini, «siamo autorizzati a pensare»?
C’entra perché, fatte le debite proporzioni con «l’inutile strage» (definizione di papa Benedetto XV), niente è più necessario di una informazione bella ragionata e puntuta, oggi che l’élite europea somiglia tremendamente a quella che un secolo fa trascinò il mondo in guerra pur di eliminare l’ultimo grande e unitario “fatto politico” – l’Impero – cattolico (questa è la tesi del famoso storico franco-ungherese François Fejtö in Requiem per un Impero defunto, volume che contiene dossier di particolare interesse, come i documenti che provano i finanziamenti alla stampa guerrafondaia: in Italia fu il solito Corriere della Sera dalle “mani pulite” l’hooligan dell’interventismo che azzerò un’intera generazione e spianò la strada al fascismo).
Dunque che tipo di “autorizzazione a pensare” rappresenta Tempi nel presente scenario di sbudellamento mentale? Credo che lo sappiate già, dal momento che avete per le mani o seguite sul web questo giornale. Suppongo, non per caso. Ma per dirla parafrasando Robert von Ranke Graves, essere attaccati a questo giornale oggi è un po’ come ritornare allo strano Natale del 1914. Quando tra una massacro e l’altro, nemici che si cecchinavano da mezzo chilometro di distanza o che si sbudellavano nei corpo a corpo all’arma bianca, un bel giorno i soldati dell’uno e dell’altro fronte uscirono dalle buche infestate da topi, merda e sangue. E fraternizzarono insieme.
In nome di cosa? Certo, in nome della nascita del Bambinello Gesù. Infatti, anche se la “cristianità” era già finita allora (tanto più oggi non esiste diffusa neanche tra i tifosi della curva del Frosinone), impossibile negare al Bambinello Gesù il fatto di essere il discrimine tra civiltà e inciviltà. “Pietra di inciampo”. E “testata d’angolo”.
Fu il protestantesimo ad abbandonare Cristo sulle nuvole. E a regalarci la stampa alla luterana, cioè come opinione-preghiera del mattino. Così da permettere al soldato e ufficiale Graves di raccontare che «mia madre mi trasmise un orrore per il cattolicesimo che conservai per moltissimo tempo. Anzi, abbandonai il protestantesimo non perché la sua morale mi fosse diventata stretta, ma per orrore del suo elemento cattolico».
Ciononostante, il divenuto forse ateo Graves ricorda perfettamente la vicenda che le massonerie di destra e di sinistra hanno cancellato dai libri di storia scolastici, studi universitari e celebrazioni della Grande Guerra. «La fraternizzazione del Natale 1914 cui il (nostro) battaglione fu tra i primi ad aderire».
Così come lo scambio di doni, canti di Natale delle proprie terre, affettuosità, sigarette e partitelle al pallone sotto l’egida del Bambinello Gesù, l’agnostico e forse ateo ufficiale Graves, lo qualifica come esempio della «stessa professionale semplicità» del dovere del soldato.
Così, come «il dovere di un soldato professionale era semplicemente quello di combattere chiunque il re gli ordinasse di combattere», la pace del Natale 1914 «non (fu) una sospensione emotiva, ma un luogo comune della tradizione militare».
E cos’è la “tradizione militare” se non la storia di un avvenimento che ha cambiato perfino il modo di farsi la guerra? (Non solo: «Pensate! – riferiva al suo Sultano un diplomatico ottomano a Vienna, ne dà notizia Bernard Lewis – qui i cavalieri lasciano il passo, inchinandosi, addirittura alle donne!»).
Ecco. Trovo che se non ci fosse un giornale che ragiona ancora come il cavaliere medievale pur senza disprezzare l’indomito soldato agnostico delle Grandi Guerre moderne, non ci sarebbe di che godere in questo frangente di perenne sospensione emotiva. Dove non si adorano che le vittime e non si cerca di raccontare altro che “l’assurdo di morire così”. Si “sente” tanto. Ma non si “vede” più niente. Impedendosi l’autorizzazione a pensare in queste trincee di fuoco (per adesso solo virtuali) che sono i social e il mondo diretto dai Principi di Googlelandia.
Perciò, rispondete al capitano e abbonatevi!
Non fatevi trovare come l’amico ufficiale di Graves, che «quando vide anche il plotone alla sua sinistra gettarsi a terra, fischiò per ordinare una nuova avanzata. Nessuno parve udirlo. Allora saltò fuori dal cratere in cui si trovava e fece segno di andare avanti. Nessuno si mosse. “Maledetti vigliacchi” gridò “mi lasciate andare da solo?” Il sergente del suo plotone, gemendo con una spalla rotta, esclamò: “Non vigliacchi, signore. La volontà non manca. Ma sono quasi tutti dei cazzo di cadaveri!».
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