
Si spengono i riflettori delle tv locali
Erano gli anni del «provare per credere», della Bustarella di Ettore Andenna e dei comici allo sbaraglio come Diego Abatantuono, Giorgio Faletti, Zuzzurro e Gaspare, Teo Teocoli in coppia con Massimo Boldi che con il tormentone «Lo so, lo so, non lo sapessi, ma lo so» avevano dato il nome a una trasmissione in onda su Antenna 3. Poi, tutti questi personaggi e molti altri passarono, a coronamento del successo, agli studi di Fininvest. Ma la gavetta nelle televisioni locali per presentatori, giornalisti e comici era un passaggio obbligatorio. Il vivaio che hanno rappresentato per diversi decenni emittenti come Telelombardia, Telenorba, Antenna 3 oggi è a rischio per una serie di ragioni che stanno mettendo a dura prova il sistema delle televisioni locali. «I ricavi pubblicitari del settore sono in forte calo – commenta per Tempi, Fabio Ravezzani – e tra le 500 tv distribuite in Italia, dispiace dirlo, ci sono delle realtà deboli che in questo clima faticano a portare a casa un fatturato accessibile. Credo che tra un anno e mezzo il numero delle tv locali si dimezzerà».
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Ravezzani è conosciuto grazie alla trasmissione sportiva di successo Qui studio a voi stadio, ma è anche il direttore del gruppo di Sandro Parenzo, Mediapason, che possiede le storiche Telelombardia e Antenna 3, più altre emittenti di giovane età quali Milanow e TopGusto.
Il comparto delle televisioni areali occupa 5 mila dipendenti e negli anni ha potuto usufruire dei contributi pubblici che venivano destinati al settore, ma la spendig review colpisce anche il telecomando e la televisione locale subirà dei tagli. Va ricordato che la contribuzione pubblica venne istituita per garantire il pluralismo dell’informazione, ma nel tempo il fenomeno si è distorto. «Non basta essere tv locali per garantire il pluralismo – spiega Ravezzani – perchè a fianco di poche realtà strutturate con dipendenti, tecnici e giornalisti che offrono un servizio importante all’informazione del telespettatore, sono nate una serie di emittenti prive di contenuti. Tali realtà, mandando in onda film o facendo un piccolo telegiornale, hanno occupato l’etere sfruttando le contribuzioni pubbliche. Questi cloni non danno un servizio al cittadino, eppure hanno continuato a essere sostenute, diluendo la linfa vitale per le realtà che invece offrono contenuti di informazione, spettacolo, sport, cronaca, politica».
La soluzione per Fabio Ravezzani è cambiare i criteri di distribuzione dei contributi, che un dirigente del ministero dello Sviluppo economico definisce obsoleti e ancora legati alle trasmissioni in formato analogico. Gli elementi che definiscono l’ammontare della contribuzione per ogni rete sono determinati dal fatturato e dal numero dei dipendenti. Ma qualche escamotage lo si trova sempre, infatti «si sono verificati parecchi fenomeni bizzarri. Innanzitutto il numero dei dipendenti in passato non veniva mai verificato e alcune realtà mostravano delle maestranze fittizie: persone che risultavano lavorare un’ora a settimana e che restituivano un numero contributivo interessante per avere dei finanziamenti. Purtroppo il lato brutto della politica, chiamamiamola politica negativa, si è inserita anche lì e abbiamo visto una serie di televisioni piccole, in alcuni casi quasi inesistenti, trovare dei padrini politici che in cambio di ospitate garantivano sovvenzioni attraverso forme di lobbismo romano. Parliamo di tv che con 4 dipendenti che godono di contributi proporzionalmente superiori a realtà come la nostra che dà lavoro a 150 persone». Ergo, chiosa Ravezzani, «serve un criterio serio. Prima di tutto verificare quanti sono i dipendenti, vedere quante ore di informazione vengono “realmente” prodotte e considerare l’odiens fornita dai dati Auditel».
Switch-off e telefonia
L’ingegner Luca Montrone è l’editore di Telenorba, una storica televisione pugliese presente sul digitale terrestre e sulla piattaforma Sky, famosa per aver dato i natali professionali a una lunga serie di personaggi divenuti famosi su scala nazionale: Checco Zalone, Francesco Giorgino, Emilio Solfrizzi e molti altri. Sull’argomento contributi, il proprietario dell’emittente barese si schiera con Telelombardia: «Nel 2012 l’importo dei contributi destinato al nostro settore è 112 milioni di euro. Nel 2013 saranno tagliati 20 milioni e nel 2014 altri 30 milioni. Bisogna tenere presente che la situazione era già difficile perché a fronte dei 270 milioni previsti per legge, ne distribuivano solo 150». Da imprenditore, Luca Montrone, promuove un ragionamento più ampio che comprende l’andamento economico del paese e in particolare delle pmi: «Le tv locali sono importanti come volàno per le piccole-medie aziende che non hanno dimensioni sufficienti per accedere alla pubblicità nazionale. Mettere a rischio le emittenti radicate nei territori non aiuta l’economia a risollevarsi da quel dato drammatico che registra 1.650 fallimenti al giorno. Se si continuano a martoriare le emittenti locali, si colpiscono anche quelle a diffusione nazionale. Il ragionamento è semplice: se le tv locali muoiono le pmi non crescono e non possono diventare nuovi clienti dei network nazionali».
I problemi per le emittenti locali non si fermano alla diminuzione di ricavi e contributi pubblici, ma bisogna aggiungere il caos creato dal cosiddetto switch-off – il passaggio dall’analogico al digitale terrestre – e dell’esproprio di alcuni canali destinati per legge alla telefonia.
Un agguerrito imprenditore in materia è Francesco Di Stefano, editore della romana Europa 7, che da anni lotta contro i giganti: «Se la telefonia necessita di banda, dove la va a prendere? Dai più deboli: le emittenti locali a cui è stato promesso un piccolo indennizzo per passare a un sistema digitale che è già vecchio in partenza perché riguarda una tecnologia del 1994. Sta di fatto che su questo argomento si è visto uno dei pasticci più grandi negli ultimi 15 anni, fatto di leggi e decreti con un unico scopo: salvare Rete 4». Di Stefano si riferisce alla sua vicenda di editore che si è protratta per anni. Europa 7 e 7 plus avevano ottenuto nel 1999 le concessioni nazionale fra le otto disponibili, escludendo di fatto Rete 4 fra i network. I ricorsi di Di Stefano vengono accolti dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, ritenendo l’Italia responsabile per non avere concesso in dieci anni le frequenze a lui dovute.
Impossibile replicare gli anni d’oro
L’indennizzo citato si riferisce all’incentivo proposto per legge alle emittenti che trasmettevano dai canali 61 al 69, espropriati per l’attibuzione di tali frequenze alla telefonia mobile. L’indennizzo previsto doveva equivalere al 10 per cento degli introiti derivanti dalla vendita delle frequenze alle compagnie telefoniche. «Lo stato ha incassato circa 4 miliardi di euro. Ne ha distribuiti solo 180 milioni», ricorda Montrone.
Un successo legale le emittenti locali lo hanno registrato nei confronti del Garante per le comunicazioni che le voleva confinare sui canali dal 10 in poi del telecomando digitale. Il Consiglio di Stato con una sentenza ha cancellato questa delibera. Le motivazioni fanno leva sul riconoscimento dell’importanza delle televisioni locali, dichiarando che una migliore collocazione delle stesse sui telecomandi digitali consentirà «ricadute economiche e valorizzazione delle emittenti di qualità sotto il profilo culturale, quale mezzo di conservazione e diffusione di usi e costumi locali, che solo strutture radicate sul territorio possono preservare e fare conoscere».
La conferenza mondiale del settore, tenutasi a Ginevra a inizio anno, ha stabilito che dal 2015 i paesi nell’area 1 (la zona che copre, oltre all’Europa, l’Africa, il Medioriente e parte dell’Asia) dovranno attribuire al mobile la banda di canali dal 49 al 60, utilizzati in modo esclusivo dalla tv e in modo particolare dai grandi network. «Cosa succederà?», si domanda Francesco Di Stefano. «Presumibilmente verranno fatti risarcimenti più copiosi, così come negli ultimi 30 anni si è gestito l’esistente, privilegiando Mediaset».
«Una cosa è certa – per Fabio Ravezzani – la televisione degli anni Settanta e Ottanta aveva un peso commerciale enorme, con fatturati importanti. Oggi è impossibile replicare quella situazione. Per realizzare una trasmissione occorrono tecnici, luci, scenografie e l’impegno economico per una stagione va dai 200 mila ai 300 mila euro, che un tempo era facile trovare, come non si faticava a trovare gente in gamba. Oggi questi soldi non ci sono più e per i nuovi talenti è sempre più difficile farsi notare».
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