
Si dimette il prof. che smascherò l’ipocrisia delle Università americane

«Gli studenti della Portland State non vengono educati a pensare. Piuttosto, vengono addestrati a imitare la certezza morale degli ideologi. Facoltà e amministrazione hanno abdicato alla missione di ricerca della verità dell’università e guidano invece l’intolleranza verso idee e opinioni diverse. Questo ha creato una “cultura dell’offesa” in cui gli studenti hanno paura di parlare apertamente e in modo sincero».
I falsi paper e l’ipocrisia accademica
Nei giorni del dibattito sulla sinistra illberale che la recente copertina dell’Economist ha finalmente sdoganato – seppure con conclusioni discutibili – anche tra i progressisti, arriva, a dimostrare con fatti concreti la gravità del problema, la lettera di dimissioni di Peter Boghossian, professore di Filosofia alla Portland State University. Divenuto famoso negli ultimi anni per avere trollato diverse riviste scientifiche, assieme ad altri colleghi Boghossian sottoponeva a peer review studi ridicoli come, tra gli altri, “Il pene concettuale come costrutto sociale” e critica ai parchi pubblici che favoriscono la “cultura dello stupro tra i cani”. Quando sistematicamente le riviste li accettavano, Boghossian rivelava pubblicamente il bluff, dimostrando nei fatti come il pensiero accademico negli Stati Uniti sia offuscato dall’ideologia.
Dopo avere ricevuto minacce di licenziamento, Boghossian è però poi rimasto al suo posto. Ma solo formalmente. La Portland State University non poteva cacciarlo facendolo diventare un martire, e così ha deciso di rendergli la vita (accademica ma non solo) impossibile. “Ho continuato a credere, forse ingenuamente, che se avessi smascherato il pensiero distorto su cui erano fondati i nuovi valori della Portland State avrei risvegliato l’università da questa follia”. Niente affatto, anzi: la Portland avvia un procedimento formale nei suoi confronti accusandolo di “cattiva condotta scientifica”, scrive ancora Boghossian: la «premessa assurda» era che «i redattori delle riviste che hanno accettato i nostri studi volutamente squilibrati fossero “soggetti umani” usati a fini sperimentali».
«Una fabbrica di giustizia sociale»
Questa situazione è la conseguenza di una trasformazione iniziata anni fa, dice il filosofo nella sua lettera di dimissioni: «Mattone dopo mattone, l’università […] ha trasformato un bastione del libero dibattito in una fabbrica di giustizia sociale i cui unici input erano razza, genere e vittimismo e i cui unici output erano il risentimento e la divisione». «Ho notato i segni dell’illiberalismo che ora ha completamente inghiottito l’accademia abbastanza presto durante il mio periodo a Portland State. Ho visto studenti rifiutarsi di confrontarsi con punti di vista diversi. Le domande dei docenti ai corsi di formazione sulla diversità che mettevano in discussione le narrazioni approvate sono state immediatamente respinte».
«Coloro che hanno chiesto prove per giustificare nuove politiche istituzionali sono stati accusati di microaggressioni. E i professori sono stati accusati di bigottismo per aver assegnato testi scritti da filosofi che erano di maschi europei. All’inizio, non mi rendevo conto di quanto fosse sistematico e credevo di poter mettere in discussione questa nuova cultura. Così ho iniziato a fare domande. Quali sono le prove che attivano gli avvertimenti e gli spazi sicuri contribuiscono all’apprendimento degli studenti? Perché la coscienza razziale dovrebbe essere la lente attraverso la quale vediamo il nostro ruolo di educatori? Come abbiamo deciso che l’appropriazione culturale è immorale?».
Sputi e lezioni boicottate
«A differenza dei miei colleghi, ho posto queste domande ad alta voce e in pubblico. Ho deciso di studiare i nuovi valori che stavano travolgendo la Portland State e tante altre istituzioni educative – valori che suonano meravigliosi, come la diversità, l’equità e l’inclusione, ma in realtà possono essere proprio l’opposto. Più leggevo le fonti primarie prodotte dai teorici critici, più sospettavo che le loro conclusioni riflettessero i postulati di un’ideologia, non le intuizioni basate sull’evidenza».
Da qui l’idea di smascherare l’ideologia accademica con i falsi paper, da qui l’inizio dell’odissea universitaria: «Nel marzo 2018 un professore di ruolo ha interrotto una discussione pubblica che stavo tenendo con la scrittrice Christina Hoff Sommers e i biologi Bret Weinstein e Heather Heying. Nel giugno 2018, qualcuno ha fatto partire l’allarme antiincendio durante una conversazione con il critico culturale Carl Benjamin. In ottobre, un attivista ha staccato i cavi del microfono per interrompere un dibattito con l’ex ingegnere di Google James Damore. L’università non ha fatto nulla. Nessuno è stato punito o castigato».
«Gli anni successivi sono stati segnati da molestie continue. Nel campus giravano volantini in cui ero raffigurato con il naso di Pinocchio. Alcuni mi hanno sputato e minacciato mentre andavo a lezione. Sono stato informato dai miei studenti che i miei colleghi dicevano loro di evitare i miei corsi. Naturalmente, sono stato sottoposto a nuove indagini».
Un problema più grande
Il suo caso è soltanto un esempio, conclude Boghossian, il problema è un altro e molto più grande: «Si tratta del tipo di istituzioni che vogliamo e dei valori che scegliamo. Ogni idea che ha fatto progredire la libertà umana è stata sempre, e immancabilmente, inizialmente condannata. Come individui, spesso sembriamo incapaci di ricordare questa lezione, ma è proprio a questo che servono le nostre istituzioni: a ricordarci che la libertà di mettere in discussione è un nostro diritto fondamentale. Le istituzioni educative dovrebbero ricordarci che questo diritto è anche nostro dovere».
«La Portland State University non ha adempiuto a questo dovere. In questo modo ha deluso non solo i suoi studenti, ma il pubblico che lo sostiene. Mentre sono grato per l’opportunità di avere insegnato alla Portland State per oltre un decennio, mi è diventato chiaro che questa istituzione non è un posto per persone che intendono pensare liberamente ed esplorare idee. Questo non è il risultato che volevo. Ma mi sento moralmente obbligato a fare questa scelta. Per dieci anni ho insegnato ai miei studenti l’importanza di vivere secondo i propri principi. Uno dei miei è difendere il nostro sistema di educazione liberale da coloro che cercano di distruggerlo. Chi sarei se non lo facessi?».
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