
Sgarbi e i ragazzi di vita di Caravaggio

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – A teatro Vittorio Sgarbi dà il meglio di sé: ricorda, racconta, insegna, affabula per due ore filate. La regia di Angelo Generali lo obbliga a un minimo di disciplina e il palcoscenico crea un’atmosfera più evocativa di una sala conferenze; il buio aumenta la qualità della concentrazione e Sgarbi divaga meno. Non perde il gusto per la battuta arguta – fuori copione – ma neppure provoca in modo sguaiato; grazie al violino di Valentino Corvino e alla scenografia video di Tommaso Arosio mette in scena il suo amore per Michelangelo Merisi da Caravaggio (1571-1610), un artista immortale, capace di vivere oltre la morte grazie alla sua pittura.
«Gli artisti appartengono al tempo che li capisce, che li interpreta, che li sente contemporanei – esordisce Sgarbi – e tra questi nessuno è più vicino a noi, alle nostre paure, ai nostri stupori, alle nostre emozioni di Caravaggio. Penso a questo spettacolo dal 1980: Caravaggio è doppiamente contemporaneo perché viviamo contemporaneamente ai suoi quadri e perché la sensibilità del nostro tempo ha restituito alla sua opera ogni significato. Non sono stati il Settecento o l’Ottocento a capire Caravaggio ma il nostro Novecento. Con lui la vita diventa arte. Come in Pier Paolo Pasolini. In entrambi l’esistenza passa per un abisso che non santifica». Pasolini, dunque, è la figura del nostro tempo – il secolo breve e violento per eccellenza – che l’eclettico ferrarese sceglie per condurci a Caravaggio.
Non è una forzatura: entrambi nati al nord, entrambi artisti di successo a Roma, più volte processati dai tribunali del tempo, erano due “diversi” nel senso più ampio del termine, due non omologati al sistema. Entrambi trovarono la morte su una spiaggia deserta, in circostanze oscure. Le affinità proseguono a ritmo incalzante, come le immagini e non è una suggestione: il ragazzo con la canestra di frutta ha il volto di Ninetto Davoli, il suonatore di liuto è Franco Citti, mentre lo scugnizzo tutto nudo, identificato con Cecco Boneri, garzone del pittore, travestito con ali posticce da Amore vincitore (Amor Vincit Omnia) ha il sorriso beffardo di Pino Pelosi. I ragazzi di Caravaggio sono i ragazzi di vita di Pasolini (1922-1975), del quale ricorrono i quarant’anni dalla morte.
La chiave di lettura pasoliniana permette a Sgarbi di tenere tutto insieme, dal realismo pittorico del Merisi al neorealismo del cinema italiano anni 50 (dalla prima mostra dedicata a Caravaggio nel 1951 dal critico d’arte Roberto Longhi – che a Bologna era stato maestro anche di Pasolini – al Vangelo secondo Matteo uscito nel 1964).
Introducendoci nella fisicità di Caravaggio Sgarbi commenta i particolari dei suoi quadri, che appaiono sulla scena come fossero personaggi, proiettati su tre mega schermi con una risoluzione talmente alta da sembrare vivi, palpitanti. Caravaggio è il pittore della realtà, ne coglie l’attimo decisivo, la fotografa – per dirla con Bergson – prima della scoperta della macchina fotografica.
«Nessuno prima di Caravaggio aveva visto, con tanta evidenza, il reale che esiste. Egli non sublima, non innalza, in lui non c’è nessun Dio che galleggia in alto, nel registro superiore della tela» ci avvisa Sgarbi. «Al contrario il Merisi vive e dipinge sulla terra, fa entrare nell’arte i truffatori, i malati, i peccatori che non hanno la certezza di un aiuto divino. Quello che dipinge prescinde dalla presenza di Dio sulla terra, la vera essenza divina di Cristo è il suo essere umano. Infatti nessuna delle sue opere è una resurrezione».
Con voce piena e vibrante Sgarbi strappa un sorriso alla platea – moltissimi i giovani ad ascoltarlo – quando commenta il Riposo dalla fuga in Egitto (1595 circa) dove san Giuseppe, per la prima volta nell’arte sacra, toglie la scena a Maria, addormentata e in disparte col suo Bambino. È un’opera che rivela la sensibilità padana di Caravaggio, da Lotto e Savoldo, con Giuseppe a fare da leggio all’angelo musicante, mentre incrocia i piedi nudi uno sull’altro, come farebbe un adolescente timido e innamorato. La Madonna dei pellegrini (1604 circa) invece, ha il volto di Lena, una cortigiana amante dei potenti e amica dello stesso Caravaggio. Era molto nota nella Roma del tempo e il dipinto suscitò non pochi schiamazzi di popolo: come raccogliersi in preghiera di fronte a una figura così poco casta e modesta? Nell’immaginario sgarbiano il volto di Maria-Lena diventa quello di Monica Bellucci, così l’oste della Cena in Emmaus di Londra assomiglia al cuoco Vissani e quello della versione di Brera a papa Wojtyla.
Tra copione e improvvisazione
Appassionato e divertente, Vittorio Sgarbi doveva compiere 63 anni prima di trovare la sua dimensione ideale. In piedi, da solo, appoggiato a una sedia che lo frappone alla platea, non recita, ma si concede con generosità e si improvvisa teologo: «Per quanto mi riguarda Caravaggio avrebbe potuto essere ateo». La resurrezione di Cristo non aggiunge nulla al suo talento e nei dipinti dell’ultimo periodo, tra Napoli, Malta e la Sicilia, c’è tutta la forza del male irrimediabile. Michelangelo Merisi, infatti, è fuggito da Roma perché lì, nel tardo pomeriggio di domenica 28 maggio del 1606, ha ucciso Ranuccio Tomassoni, nobiluomo di Terni. Colpito da bando di condanna capitale in contumacia, è ricercato da tutte le polizie internazionali del tempo: i famigli del padre del Tomassoni, l’ex colonnello Luca Antonio, una figura di cui l’aristocrazia filospagnola si ricordava molto bene per i servizi militari da lui prestati alla casa dei Farnese; i sicari dei cavalieri dell’Ordine di Malta e gli armigeri del Papa Paolo V (eletto con i favori degli Spagnoli). Nel dipingere Davide con la testa di Golia (1606) oggi alla Galleria Borghese di Roma, l’artista si auto ritrae nel gigante decapitato: ha la fronte corrugata, lo sguardo sofferente e la bocca aperta di un agonizzante. È l’ultima tela che Sgarbi commenta e, davanti al volto mesto di Davide, il poliedrico ferrarese sfodera un ossimoro fulminante: «Il vincitore è il vero perdente, perché non c’è vita in chi dà la morte».
Dopo il debutto, nel luglio scorso, al Teatro della Versiliana di Pietrasanta, lo spettacolo Caravaggio di e con Vittorio Sgarbi, prodotto da Promo Music di Bologna, La Versiliana Festival e Marcello Corvino è andato in scena pochi giorni fa al Carcano di Milano e per tutto l’inverno sarà in tournée nazionale da Conegliano Veneto ad Alessandria, da Genova a Savona, da Torino a Marmirolo, da Vicenza a Bergamo. Dal 15 al 17 febbraio sarà in cartellone al Teatro Vittoria di Roma per chiudere le rappresentazioni ad Avellino (18-19 febbraio) e a Foggia (26-27 febbraio). Tra copione e improvvisazione Sgarbi torna a fare cultura: «Amare ciò che è in difetto è possibile con Caravaggio e lo è perché persiste una tensione verso il reale, una necessità disperata – quella del pittore – di esprimere la verità, sempre, nonostante una vita inquieta e nascosta. È questa la straordinarietà di Caravaggio: non temere l’inevitabile, non avere paura». Un messaggio quanto mai attuale!
Foto: Alessandro Fabbrini
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