
Servirebbe un uragano Katrina per cambiare il nostro modo di intendere la scuola

Caro direttore, sono un genitore che per molti anni ha mandato tutti i propri figli alle scuole paritarie e ho letto con molto interesse l’articolo pubblicato e che condivido in gran parte. Mi permetta però di sottolineare che anche da parte di queste scuole si debba avere il coraggio di fare ogni autocritica, mi permetta due esempi:
1) Tra scuole paritarie vige spesso una logica di concorrenza spietata e non di collaborazione o di rete per difesa di piccoli orticelli (la Brianza è un ottimo esempio) che certamente nel lungo periodo non ha giovato alla costruzione di realtà solide e attrattive.
2) La bassa propensione di queste scuole all’affronto serio e professionale alle nuove problematiche come quelle dei Dsa o dei disturbi di apprendimento (temi che nelle scuole statali sono affrontati con molta più serietà).
Se si deve fare un ragionamento va fatto a 360 gradi altrimenti si rischia di scadere sempre nel solito piagnisteo dove gli altri sono tutti cattivi e noi sempre i buoni e discriminati.
Saluti,
Gianmario Forneris
Gentile Gianmario, non mi pare che Tempi sia un giornale “piagnone”. Anzi, proprio lo scambio di pareri con l’insegnante Tommaso Tornaghi serviva a mettere sotto il cono di luce una problematica diversa dalla discriminazione subita dalle paritarie. Poi, che questa discriminazione esista e sia la causa della maggior parte dei problemi mi pare così solare che non occorre aggiungere altro.
A riguardo delle sue due osservazioni, mi soffermo solo sulla prima (non per eludere la questione ma, francamente, mi intendo davvero poco di Dsa e disturbi dell’apprendimento, e quindi rischierei solo di dare giudizi o solo generici o solo affrettati). A proposito della prima, credo che lei abbia ragione. Che ci sia una propensione a curare il proprio orticello anziché fare rete è innegabile. È altrettanto vero che non tutte le paritarie sono uguali (così come le scuole statali, al cui interno operano spesso insegnanti di una dedizione e preparazione eccezionale).
Spero abbia letto la lettera di Franco Viganò che abbiamo pubblicato sul nostro sito l’8 settembre.
Scrive Viganò:
Sono convinto che una delle prime ragioni per cui gran parte dell’opinione pubblica in Italia sia sostanzialmente indifferente al futuro della scuola non statale stia nel fatto che una buona fetta delle “scuole private” italiane garantiscono ai propri studenti un livello di preparazione bassissimo, sono “diplomifici” nel gergo comune. Perché mai lo Stato dovrebbe sostenerle economicamente? Penso che le scuole non statali di buon livello, e sono tante, debbano costituire un cartello di “scuola di qualità”, documentando il marchio con numeri e dati tangibili per arrivare a differenziarsi, nell’immaginario pubblico, dalle comuni “scuole private”.
Insomma, le questioni sono tante e prometto che anche sul Tempi mensile continueremo a parlarne. Io, poi, siccome sono un “estremista” sogno un’Italia dove non ci sia più nemmeno bisogno delle paritarie. Chiudiamole tutte e chiudiamo pure le statali. Mi spiego: chi l’ha detto che l’istruzione dei nostri figli debba essere elargita e organizzata dallo Stato? Per come la vedo io, non dovrebbe nemmeno esistere la distinzione tra paritarie e statali, nel senso che le scuole dovrebbero essere tutte paritarie. O detto in maniera diversa: tutte le scuole dovrebbero godere di una forte autonomia, controllate dallo Stato ma gestite dai privati. Lo Stato dovrebbe solo garantire che funzionino, che siano presenti su tutto il territorio nazionale e che seguano nei programmi (dall’italiano alla geografia) alcuni argomenti imprescindibili. Per il resto, libertà assoluta e totale.
Gli abitanti di un territorio vogliono fare una scuola che, oltre alle concordate ore di lezione base, vuole inserire materie che rispondono all’esigenza di quel territorio? Facciano la scuola, se la facciano certificare dallo Stato, aprano le iscrizioni. La tal associazione di melomani vuole fare un liceo che, oltre al latino e alla fisica, insegna ai suoi studenti a suonare l’oboe e la vuvuzela? Idem come sopra. I Lions si facciano la loro scuola, la Coldiretti la sua, la Cgil la sua e così via. Chi avrà filo, tesserà; quelle che non funzionano, chiuderanno. Lo Stato non si sostituisca, ma si metta al servizio di questa creatività e fantasia.
Lo so, sto sognando, ma fate la tara al ragionamento, lasciatemi il gusto dell’iperbole e trattenete il succo della provocazione. Perché deve essere lo Stato a educare i nostri figli? Perché deve essere lo Stato a scegliere gli insegnanti? Chi l’ha detto che è meglio così? Un modello che si avvicina a quel che intendo sono le charter school americane: istituti pubblici dove il dirigente scolastico gode di massima autonomia e che sono finanziate solo in parte dai fondi statali. Dopo l’uragano Katrina che devastò New Orleans nel 2005, in città nacquero solo questi tipi di scuole. Risultato? Più studenti terminano gli studi e con risultati migliori.
Spero in un (metaforico) uragano Katrina che ci costringa a ribaltare la prospettiva: bisogna avere il coraggio di rischiare sulla libertà.
Foto scuola Shutterstock
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