
Separati in casa
Domenica 7 ottobre: alla periferia di Bruxelles 350 manifestanti fiamminghi del gruppo Voorpost bruciano la bandiera nazionale belga urlando: «Crepi il Belgio!». Sono con loro anche 17 parlamentari del partito indipendentista fiammingo Vlaams Belang. La manifestazione a favore dell’unità nazionale, due settimane prima, sotto lo striscione “Non toccatemi il mio Belgio”, aveva riunito appena un migliaio di persone. Giovedì 4 ottobre: dal primo piano all’ingresso dell’Università autonoma di Barcellona pende un grande striscione con la scritta “anche l’Università autonoma di Barcellona brucia la corona spagnola”. Appeso per la gola a una corda incollata allo striscione c’è un manichino che riproduce a grandezza naturale le fattezze del re di Spagna con una grande macchia di sangue all’altezza del cuore. Proteste antimonarchiche dello stesso genere si registrano a Valencia e Alicante, mentre a Madrid vengono processati nove giovani che il 22 settembre a Gerona (Catalogna) avevano bruciato fotografie del re.
In questo autunno del 2007 la voglia di farla finita con l’unità di alcuni dei più antichi, civili, benestanti paesi dell’Europa occidentale non è solo l’ùzzolo di ragazzi esagitati e partiti d’opposizione estremisti. Josep Carod-Rovira, vicepresidente della generalità di Catalogna, leader del partito indipendentista catalano di sinistra (Erc, alleato in Catalogna del Psoe di Zapatero) e commissario della rappresentativa catalana alla Fiera del libro di Francoforte, ha escluso dalla partecipazione alla più grande manifestazione libraria del continente tutti gli autori residenti in Catalogna che scrivono in castigliano. Alle obiezioni ha risposto: «Lo Stato spagnolo ci impedisce una qualunque personalità nazionale propria in condizioni normali. Per questo esigiamo un nostro proprio Stato. La Catalogna ha patito un tentativo di genocidio culturale durante i 40 anni della dittatura franchista, e questa è una storia fresca». Juan José Ibarretxe, lehendakari (governatore) dei Paesi Baschi, ha annunciato il 28 settembre un piano in quattro fasi per «ottenere l’autodeterminazione del popolo basco» che prevede un referendum nell’ottobre 2008 e un altro nel 2010 che potrebbero portare la regione all’indipendenza. Il giorno dopo il governo spagnolo ha annunciato che impedirà «con tutti i mezzi» lo svolgimento dei due referendum. Ibarretxe ha replicato che la presa di posizione governativa «non gli fa tremare i polsi» e ha domandato: «Se è illegale consultare la società, a che serve l’autogoverno basco?». Carod Rovira gli ha immediatamente comunicato la sua solidarietà. Per proporre una road map verso l’indipendenza della Scozia il leader dello Scottish national party, Alex Salmond, ha invece scelto il 14 agosto: in quella data il primo ministro della Scozia, entrato in carica il 16 maggio a capo di un governo monocolore minoritario sorretto dall’appoggio esterno dei Verdi, ha pubblicato un libro bianco sull’indipendenza scozzese che conferma il programma del suo partito di tenere un referendum di autodeterminazione nel 2010, ma lo considera più probabile dopo le elezioni del 2011. Yves Leterme, leader democristiano fiammingo e presidente incaricato di formare il nuovo governo belga dopo le elezioni del 10 giugno scorso, non è un indipendentista dichiarato. Ma i 120 infruttuosi giorni del suo mandato esplorativo (un record assoluto) sono stati punteggiati da exploit come la dichiarazione che i belgi hanno in comune solo «il re, la nazionale di calcio e alcuni tipi di birra» e che l’inno nazionale sarebbe in verità niente meno che la Marsigliese.
Bruxelles, Anversa, Barcellona, Bilbao, Edimburgo: niente a che fare con l’anonimo paesaggio urbano del socialismo reale del pulviscolo nazionale balcanico; si tratta di alcune delle città europee più ricche, dinamiche e capaci di coniugare tradizione e modernità. Dove la convivenza, non sempre facile, fra etnie di tutto il mondo è regola quotidiana. Eppure il desiderio dei fiamminghi di separarsi dai valloni, di catalani e baschi di staccarsi dal resto della Spagna, di scozzesi e inglesi di arrivare al divorzio dopo un matrimonio lungo tre secoli ricorda un film già visto: il fuggi fuggi di sloveni, croati, musulmani bosniaci e albanesi kosovari dalla Jugoslavia a guida serba, il divorzio consensuale fra cechi e slovacchi, l’implosione dell’Unione Sovietica.
Ma non siamo nei Balcani
Nei vari sondaggi la quota di popolazione favorevole alla separazione appare preoccupante: in Belgio i fiamminghi che vogliono la divisione del paese oscillano fra il 39 e il 46 per cento, in Scozia gli indipendentisti starebbero tra il 44 e il 52 per cento, mentre almeno la metà degli inglesi non avrebbe obiezioni al distacco. Anche i baschi ardentemente pro indipendenza sarebbero il 39 per cento, così come i catalani.
Cosa sta succedendo? Tempi lo ha chiesto a un intellettuale e uomo di Chiesa di gran vaglia come Julien Ries, storico delle religioni e antropologo culturale erede di Mircea Eliade, fondatore del Centro di storia delle religioni dell’Università cattolica di Louvain-la-Neuve. Padre Ries mette da parte le spiegazioni legate alle rivendicazioni fiscali ed economiche e va dritto alla storia del suo paese. «La situazione va verso la distensione», rassicura. «La maggioranza dei belgi continua a riconoscersi nel motto belga: “l’unione fa la forza”. In realtà il separatismo fiammingo è alimentato da una serie di avvenimenti fondatori che ne fanno la forza e la debolezza: durante la Prima guerra mondiale l’occupazione tedesca delle Fiandre ha portato alla creazione di piccoli gruppi separatisti, e questi si sono rafforzati durante la Seconda guerra mondiale, quando l’occupazione nazista ha ispirato alcuni fiamminghi a immaginare una confluenza nella Gross Deutschland di tutti i popoli germanici. Questi gruppi si sono strutturati e hanno guadagnato terreno presso la gioventù fiamminga».
Naturalmente questo non significa che tutti i fiamminghi simpatizzanti per l’indipendenza siano dei nostalgici dell’Europa sotto il tallone nazista: le recriminazioni economiche contano, quando si pensa che i trasferimenti fiscali vanno sempre dalle Fiandre verso la Vallonia, in ragione di 5 miliardi di euro all’anno, e che le Fiandre contribuiscono al Pil nazionale per il 57,3 per cento, mentre la Vallonia solo per il 23,7 (il resto riguarda il territorio di Bruxelles). Ma un altro elemento importante è il mancato ruolo coesivo della Chiesa: il Belgio è nato nel 1830 come paese cattolico in contrapposizione all’Olanda calvinista, eppure fra gli “avvenimenti fondatori” del separatismo fiammingo c’è proprio una vicenda che riguarda la Chiesa cattolica: «Nel 1968 gli studenti fiamminghi dell’università cattolica di Lovanio hanno dato vita al movimento “Walen buiten” che ha portato all’espulsione dei valloni dall’università e alla creazione di un’università separata in lingua francese per loro in una nuova città 30 km a sud di Lovanio, che si sarebbe chiamata Louvain-la-neuve». La Chiesa non seppe opporsi alla separazione, anzi la accompagnò.
Temi simili si trovano in Spagna: in Catalogna e nei Paesi Baschi la locale Chiesa cattolica ha flirtato coi movimenti nazionalisti ben oltre il periodo dell’oppressione franchista. Ancora oggi ottenere il permesso per celebrare Messe in castigliano a Barcellona e in molte località basche è assolutamente proibitivo. Il risultato finale è stato molto diverso da quello sperato: «Un tempo la Catalogna e i Paesi Baschi erano le due regioni più cattoliche della Spagna, e anche quelle che davano più vocazioni missionarie», spiega José Miguel Oriol, direttore dell’editrice Encuentro di Madrid. «Oggi la più forte contrazione della frequenza del culto domenicale e delle vocazioni sacerdotali si registrano proprio in queste due aree». Il dettaglio è illuminante: i nazionalismi locali raramente si contrappongono alla Chiesa istituzionale e alle tradizioni religiose, anzi trovano in esse appoggio. Ma per loro natura favoriscono il declino della religione perché la sostituiscono nei cuori. La passione nazionalista ha forme e contenuti religiosi: si propone come un assoluto e un ideale superiore a tutti gli altri, richiede e ispira grandi sacrifici, suscita un senso di fraternità e di reciproca appartenenza modellato su quello dell’identità religiosa. Proprio per questo va considerata con estrema diffidenza. Oltre che per una ragione di natura politica: un’Unione Europea frammentata in una quarantina di piccoli paesi frutto di scissioni e separazioni non avrà mai un peso strategico in questo mondo di giganti statali.
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