Senza pietà. I civili nel mirino dei talebani

Di Laura Borselli
26 Aprile 2007
Aumentano gli attacchi contro chi ha la sola colpa di voler continuare a vivere. La denuncia di Human Rights Watch e Amnesty International

È felice Sharzad. Nella suo cuore limpido di bambina di nove anni c’è la certezza che Allah ascolterà le sue preghiere e farà in modo che la sua domanda di ammissione a scuola venga accettata. È un giorno di primavera e lei sta tornando insieme ai suoi fratelli da una moschea di Kabul quando l’ordigno esplode. «Ho pensato che sarei morta. Il contraccolpo mi ha buttata a terra, ho cercato di rialzarmi, ma sono caduta di nuovo. Credo di aver inciampato nel mio intestino».
Quattro passanti sono rimasti uccisi nell’attacco suicida del 12 marzo 2006 che aveva come obiettivo Sibghatullah Mojaddedi, membro della Camera alta dell’Aghanistan e a capo di una commissione per la riconciliazione incaricata tra l’altro di instaurare un dialogo con i talebani. Mojaddedi se l’è cavata con qualche ferita. Sharzad si sveglia ancora oggi nel cuore della notte in preda agli incubi, come racconta lei stessa all’Organizzazione non governativa Human rights watch (Hrw), è piena di cicatrici agli arti e nello stomaco e dopo l’attentato i dottori hanno dovuto asportarle oltre 150 centimetri di intestino.
Quello passato è stato l’anno peggiore per i civili afghani dai tempi del rovesciamento del regime talebano nel 2001. Nel solo 2006 le forze antigovernative (principalmente i talebani del gruppo Hezb-e Islami) hanno ucciso 669 civili in 350 diversi attacchi, circa la metà di queste azioni di guerra risultano aver preso di mira intenzionalmente la popolazione. Significa che le vittime civili non sono state lo spiacevole effetto collaterale di azioni rivolte contro le truppe Nato o la polizia afghana, ma le innocenti vittime prescelte per far sprofondare il paese nella paura mettendolo a ferro e fuoco. Se è vero, infatti, come sottolinea Hrw, che il contingente internazionale è responsabile della morte di almeno 230 civili nel 2006, e che col governo afghano condivide in molti casi la responsabilità di non aver fatto abbastanza per mettere i civili al riparo delle azioni di guerra, è altrettanto vero che non c’è alcuna prova di attacchi intenzionali contro la popolazione da parte del contingente Nato. Ben diverso il discorso per i talebani che qualcuno vorrebbe addirittura vedere seduti a un tavolo di pace per l’Afghanistan. «Le nostre indagini – scrive Hrw – rivelano che le vittime civili degli attacchi degli insorti erano intenzionali o quanto meno evitabili. Le forze degli insorti prendono di mira regolarmente i civili».
Azioni che violano il diritto umanitario internazionale e che si configurano dunque come crimini di guerra, come sottolinea anche un’altra ricerca sul campo di Amnesty International diffusa la settimana scorsa.
La recrudescenza della violenza talebana mette in discussione il già difficile tentativo di ricostruzione del paese (il 60 per cento dell’economia dipende ancora oggi dalla produzione di oppio) e prostra gli animi di quelli che restano in Afghanistan (i profughi all’estero sono circa tre milioni). Habibullah, il fratello di due civili uccisi in un attacco talebano, si sfoga con Human Rights Watch: «Quei bastardi, si fanno saltare in aria. Non uccidono gli stranieri. Uccidono solo la gente innocente. È come se tentassero di uccidere dei bambini. E nessuno dal governo è venuto a offrirci conforto o a farci le condoglianze, o a dirci che cercheranno di fermare questi attacchi». «Quello che i talebani fanno – racconta Roshan, gravemente ferito in un attentato in cui ha trovato la morte suo fratello – non è islamico; nessuno potrà mai giustificare le loro azioni di fronte a Dio. Con le loro azioni i talebani rendono i bambini orfani e le famiglie povere ancora più povere».
Per mano dei talebani Paykai ha perso suo marito Abdul, operatore umanitario in una ong locale. «Tutto quello che lui voleva – racconta a Hrw – era lavorare per tirar su i nostri bambini nel miglior modo possibile. Da cinque anni lavorava per l’ong e andava fiero del suo lavoro. Era un buon marito, un buon padre. Da quando è morto i miei figli piangono per lui ogni giorno. Oggi il mio obiettivo è mandare i miei bambini a scuola. Ma voglio che ci possano andare indossando dei buoni vestiti. Non voglio che gli altri bambini ridano di loro». Mohammad Yousef Aresh, sopravvissuto a un attentato, non riesce a capire: «Qual è il mio errore? Perché i talebani vogliono uccidermi? È perché mi rado la barba? Io sono un lavoratore. Non ho nemici. Quel giorno vicino al ministero non c’era nessuno dell’Isaf, c’era solo gente normale, afghani. Qual era il loro obiettivo, la gente? Non so quale fosse il loro obiettivo quel giorno. Non so quale sia il loro obiettivo oggi».

Rimettere il velo al paese
Appunto, il loro obiettivo. Di certo gettare fango sul governo di Kabul. Il loro codice militare rifiuta esplicitamente l’uccisione di civili. Bella regola, seguita da quella secondo cui gli insegnanti che continuano a insegnare dopo aver ricevuto avvertimenti devono essere picchiati e uccisi se trasmettono contenuti «contrari ai principi dell’islam». Il precetto di non uccidere civili viene poi prontamente emendato da una fatwa di morte contro tutti coloro che sostengono la coalizione guidata dagli Usa. «Non c’è differenza tra le persone armate che lottano contro di noi – ha dichiarato ad Amnesty un portavoce talebano – e i civili che cooperano con gli stranieri».
Spaventare, distruggere nel corpo e nello spirito chi prova a ricostruire la propria vita e il paese, ma soprattutto “rimettere il velo e far ricrescere la barba” all’Afghanistan. Lo dimostra lo sconcertante crescendo di attacchi contro le scuole e il sistema educativo. Secondo Amnesty sono state almeno 183 le scuole bruciate, minacciate tra il 2005 e il 2006. «I genitori in molte regioni – scrive ancora l’ong – adesso sono riluttanti a mandare i figli a scuola e il clima di paura sta mettendo seriamente in discussione il diritto all’istruzione di centinaia di bambini». Inutile dire che le più a rischio sono le bambine. Quelle come Binafsha, 17enne operatrice umanitaria afghana col sogno di diventare dottoressa, uccisa in un agguato insieme a un collega mentre andava a portare aiuto in una remota provincia del nord. Quelle come la piccola Sharzad, che per tutta la vita porterà i segni di quel giorno di primavera diventato infernale per le strade di Kabul.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.