
Se non possiamo batterli, possiamo comprarli. La pia illusione occidentale sui talebani

Se non siamo riusciti a batterli con le armi, li batteremo con i soldi. È questo il sottofondo di un ragionamento che, seppur avanzato spesso solo implicitamente, affiora in tanti articoli che vediamo apparire sulla stampa in questi giorni, mentre ancora si raccontano le tragiche vicende afghane.
La questione, in effetti, non è di poca importanza. L’Afghanistan è un territorio ricco di metalli preziosi e terre rare (quanto mai necessarie in tempi di transizione ecologica), tanto da essere stato definito «l’Arabia Saudita del litio», tutti conosciamo la sua nomea di “paese dell’oppio”, tutti capiamo che le sue ricchezze attirino le attenzioni dei paesi vicini.
Deposto il kalashnikov
Come i talebani gestiranno il loro emirato? Con quali soldi? Il non detto è questo: grandi guerrieri, ma pessimi burocrati, i talebani andranno in sofferenza quando, dopo il kalashnikov, dovranno prendere in mano carta e penna per fare i conti.
Il problema di questa visione è che riflette sui talebani il nostro modo di concepire lo Stato, l’economia, il suo funzionamento. Ma loro sono un’altra cosa rispetto a noi, ragionano secondo categorie a noi aliene, hanno priorità diverse da quelle occidentali.
Il blocco dei fondi
Ieri, ad esempio, lo scriveva Danilo Taino sul Corriere della Sera, facendo notare che «non è detto che l’idea di prenderli per fame funzioni».
Beninteso, è vero che il blocco dei fondi e la sospensione degli aiuti, manderà in difficoltà il regime dei tagliagole: «Gli Stati Uniti hanno bloccato 9,5 miliardi della banca centrale afghana detenuti all’estero. Il Fondo monetario internazionale ha chiuso l’accesso dei nuovi signori di Kabul a 460 milioni di dollari. La Ue ha sospeso gli aiuti e se si calcola che i quattro miliardi che ogni anno gli Usa e i Paesi Nato versavano al Paese costituivano il 75% del bilancio operativo del governo si capisce come senza il denaro occidentale tutto potrebbe fermarsi».
I proventi del pizzo
Ma, a parte stare a vedere cosa farà la Cina, c’è anche da tenere conto che i talebani guadagnano molti soldi attraverso quella che gli esperti chiamano «tassazione informale» (volgarmente, un pizzo) che i guerriglieri islamisti fanno pagare a tutti quei commercianti che attraversano il loro territorio.
Non sono uno Stato, e non sono un regime: assomigliano più a una mafia. Ancora il Corriere: «David Mansfield e Graeme Smith hanno da poco pubblicato uno studio sull’economia informale afghana [in cui] hanno calcolato che alla provincia di Nimruz, nell’Afghanistan del Sud, arrivano ogni anno 20 milioni di dollari in aiuti esteri ma la tassazione informale ne raccoglie 235. Mansfield e Smith calcolano che il commercio regolare attraverso la frontiera con l’Iran sia di due miliardi di dollari l’anno, cifra che però raddoppia se si considerano gli scambi informali. L’anno scorso i talebani avrebbero incassato 84 milioni di dollari su questo confine, e non controllavano ancora tutti i punti di passaggio. L’economia illegale non sarà mai la base del futuro in Afghanistan. Raffredda però le speranze dell’Occidente».
Una pia illusione
Ancora più esplicito sul punto è stato ieri Domenico Quirico sulla Stampa: “Non si fa pace con i dollari“.
«Per affatturare i taleban alla mansuetudine almeno formale, resta dunque all’Occidente ormai una sola strategia, far balenare il blocco di miliardi di “aiuti umanitari”, astuta metafora per non dire che siamo disposti a pagare perché gli emiri siano buoni».
È una pia illusione, spiega il grande inviato di guerra, pensare che là dove hanno fallito i bombardieri possano oggi avere successo «le nostre uniche divisioni corazzate, il Fondo monetario, la Banca mondiale, le casseforti molto miracolose della Unione Europea».
Ascoltano i profeti, non gli economisti
Questo è un modo di ragionare “occidentale”, che non è lo stesso dei talebani, dice Quirico: «Per il fondamentalismo talebano l’economia, al contrario di quanto accade nel nostro mondo, non costituisce una voce fondamentale del progetto politico e sociale. Anzi: un mondo di poveri ma puri, a cui provveda per l’essenziale la carità medioevale della zakat, l’elemosina maomettana, è meglio che un emirato di benestanti dove inevitabilmente con lo “sterco del diavolo” arriverebbero tutti i vituperati vizi e le tentazioni dell’idra occidentale. È gente che ascolta non gli economisti, ma i profeti. Ciurme operose in quella parte del mondo predicano che il paradiso è la guerra santa, non un Pil ben aggiustato».
«Noi amiamo la morte»
È dai tempi dell’11/9 che commettiamo questo errore, pensando di trovarci di fronte a un nemico che ragiona come noi, solo in maniera più cruda e violenta, ma che al “dunque” (quando le armi sono deposte) sa scendere a più miti consigli, ammansirsi, accordarsi cinicamente, far prevalere la realpolitik.
Non è così. Potremo “comprarli” per un po’, e loro si faranno pagare finché farà loro comodo «perché ci evitino il corpo a corpo con le nostre colpe», come scrive ancora Quirico. Ma non durerà a lungo. Loro ci avevano avvisato sin dal principio: «Noi amiamo la morte come voi amate la vita», «voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo».
La differenza tra noi e loro è che noi stiamo facendo una guerra, che ha le sue regole, le sue atrocità e le sue astuzie. Loro stanno facendo una guerra santa.
Foto Ansa
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!