
«Se l’Ilva chiude, all’estero stapperanno bottiglie di champagne. Lasciarla perdere è un clamoroso autogol»
All’Ilva di Taranto servono 80 milioni di euro, forse 100, per pagare entro il 12 luglio gli stipendi ai dipendenti. A lanciare l’allarme con una lettera al Foglio è il senatore Pd, nonché presidente della Commissione industria, Massimo Mucchetti, secondo cui l’Ilva non ha soldi in cassa nemmeno «per offrire garanzie per una nave minerale in partenza dal Brasile». L’acciaieria pugliese ha più che mai bisogno di «un nuovo padrone», sostiene Mucchetti. Mentre la banca elvetica Ubs, in un report, ha ipotizzato la chiusura parziale o totale dello stabilimento: «Sarà una cattiva notizia per i suoi 11 mila dipendenti – si legge – ma a beneficiarne saranno tutti gli altri», perché una chiusura dell’Ilva, secondo Ubs, avrebbe il merito di ridurre la sovraccapacità produttiva di acciaio dell’intera eurozona.
«Sono due non notizie», secondo il presidente di Federacciai Antonio Gozzi, che a tempi.it dichiara: «È da più di un anno, ormai, che ripeto che i produttori esteri stapperebbero bottiglie di champagne per una chiusura dell’Ilva, ma se ciò dovesse accadere, sarebbe un clamoroso autogol per il Paese, un regalo straordinario alla concorrenza europea e internazionale».
Dunque è vero che l’Europa produce più acciaio di quanto ne abbia bisogno?
Questo nessuno può dirlo con assoluta certezza. O meglio, è vero in questo momento, durante questa negativa congiuntura economica, ma chi può dire se ci troviamo di fronte a un ridimensionamento congiunturale o strutturale della capacità produttiva europea? Intendo dire, il calo verticale della domanda di acciaio è dovuto solo alla crisi economica, oppure i fondamentali dell’economia europea sono definitivamente cambiati dopo il fallimento di Lehman Brothers? Perché, se così fosse, allora, la delocalizzazione della domanda, e quindi della produzione, di acciaio sarebbero inevitabili.
Secondo lei?
Io temo, purtroppo, che ci troviamo di fronte alla seconda ipotesi. Ciò non toglie, però, che lasciar chiudere l’Ilva sarebbe un regalo ingiustificabile da parte del nostro Paese alla concorrenza. Non dimentichiamoci, poi, che l’Ilva è importantissima per la Puglia, per il Sud Italia, ma anche per tutto il settore della trasformazione del metallo e della meccanica italiane, che sono indiscutibili eccellenze produttive della nostra economia. La chiusura dell’Ilva comporterebbe un ulteriore e drammatico deterioramento della competitività del Paese.
Come si è arrivati a questo punto?
Se non ci sono soldi per pagare gli stipendi e fare gli ordini, significa che l’Ilva si sta avvicinando pericolosamente allo stato di insolvenza. E il motivo di tutto ciò è la gravissima crisi finanziaria provocata dagli sconvolgimenti degli ultimi due anni. Mi riferisco a tutta quella serie di sequestri, poi sconfessati dalla Suprema Corte di Cassazione, che si sono perpetrati per mesi e mesi di non lavoro a Taranto. Un commissariamento senza precedenti nella storia industriale del Paese, che non ha portato a nessun risultato concreto, ma solo a gravi perdite e grandi progetti di ambientalizzazione, che sono stati approvati, ma finora mai finanziati. E questo proprio perché non ci sono i soldi per finanziarli. E stiamo parlando di un’azienda che negli ultimi 15 anni di gestione privata non aveva mai chiesto una lira allo Stato italiano. Questo è ciò che è stato provocato dal 2012 ad oggi.
L’Ilva finirà in mano ai cinesi di Baosteel?
Finora gli unici ad aver dimostrato un serio interesse per l’Ilva sono stati i lussemburghesi di ArcelorMittal, il primo produttore europeo di acciaio, che ha fatto sapere al governo italiano di voler verificare le condizioni dell’Ilva e lo sta facendo. Quello che non hanno detto, però, è che, pur avendo un evidente interesse strategico per l’Ilva, devono valutare quale sarà il peso sull’operazione delle enormi complessità e incertezze che gravano sul futuro dello stabilimento tarantino. Innanzitutto le gravi perdite di cassa degli ultimi anni e poi l’Aia, l’Autorizzazione integrata ambientale, che è costosissima (1,8 miliardi di euro), prevede tempi strettissimi per la realizzazione ed è totalmente fuori benchmark rispetto agli standard internazionali.
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9 commenti
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Prrrr
l’Ilva ha ucciso tantissimi taranti afferma, mentendo, tale Gabriel. Non è mai stata presentata alcuna relazione che dimostrasse ciò. I taranti che sono morti negli anni sono morti come quelli di Bari, Milano, Livorno, ecc
Gli 11000 lavoratori dovrebbero ringraziare la FIOM-CGIL che ha innescato questa tragedia sulla loro pelle per solo demagogia dottrinale e visbilità
tante commesse della ILVa sono state portate via dai signori’ politici (tutti di provenienza meridionale) che venivano all’Ilva di Lovere (Bg) e dopo roboanti discorsi si portavano via le commesse per portarle a Taranto. Come spesso accade le cose ‘rubate’ vanno in crusca. Non sono contento che ora manchi lavoro agli operai di Taranto, ma certamente mi dispiace di più per quelli della mia regione, che sono stati licenziati o hanno dovuto cambiare lavoro per i capricci dei politici che hanno solo occhi di riguardo per il Sud Italia. Insomma siamo, qui al Nord, degli indegni, pare di capire. Fratelli minori ma siamo quelli che hanno dato il benessere alla stessa Italia che ora ci sputa addosso, dopo aver sperperato oceani di denaro guadagnato piegando le nostre schiene.
Piuttosto: “Ecco dove ci hanno portato gli imprenditori pregiudicati e quelli in attesa di estradizione”.
Un po’ di verità ogni tanto, Gozzi?
Per favore, spiega a me, povero ignorante di chimico già ricercatore del CNR, come sia possibile produrre inquinanti organici fondendo insieme sostanze inorganiche come carbone, ferro ed altri metalli di transizione. Una cosa di cui Gozzi non parla è, piuttosto, la crisi strutturale della siderurgia. Oggi, tante cose che un tempo si facevano con l’acciaio si fanno, meglio, con materiali sintetici. Questi, le c.d. “plastiche” – polimeri di diverse composizioni e loro compositi – sono i materiali del futuro. Negli ultimi anni del secolo scorso, quando ero ancora in servizio, vidi al Mediterintec di Napoli un pezzo di ala d’aereo completamente in materiali sintetici, senza nemmeno un grammo d’acciaio. Era un prototipo, realizzato da un altro istituto del CNR, che concludeva un programma di ricerca, iniziato indovinate quando? Quando il parlamento italiano approvava il progetto e l’inizio della costruzione del mai inaugurato V° Centro Siderurgico di Gioia Tauro! Mentre noi, mal finanziati e mal retribuiti operatori della ricerca pubblica, ci sforzavamo di costruire il futuro, i politici guardavano al passato. Come al solito, la politica, come gli indovini della bolgia dantesca, “di retro guarda, e fa ritroso calle”.
Cosa c’entra questo con la sistematica difesa d’ufficio da parte di Federacciai?
Come e dove si formino diossine e idrocarburi policiclici aromatici in un’acciaieria a ciclo integrale e dove venissero impiegati policlorobifenili sempre nella medesima acciaieria, al massimo avrebbero dovuto spiegartelo prima di diventare ricercatore CNR se non addirittura prima della laurea, ma essere un chimico non vuol dire conoscere una batteria di forni a coke o un impianto di agglomerazione.
Per il resto siamo d’accordo, per 40 anni l’Italia è stata fatta navigare con il motore “indietro tutta”.
D’accordo, sono un chimico organico e la metallurgia non è mai stata il mio campo di ricerca. Tuttavia, nelle prove pratiche del corso di chimica applicata da me frequentato al V° anno, c’era anche il calcolo della perdita, per calcinazione, dei componenti volatili del carbon fossile. A me capitò un campione d’un’antracite di non so quale paese nord-europeo. La perdita superava di poco l’errore sperimentale delle due pesate. Credevo, forse mi illudevo, che nelle acciaierie si usasse carbone “pulito” di questo tipo, non, p.es., la lignite del Sulcis, che veniva bruciata nella centrale termoelettrica di Porto Vesme, quando ne era direttore il mio nonno materno Dante Puddu! La centrale, per la cronaca, fu chiusa subito dopo la guerra, perché, si racconta, l’acido solforico prodotto nella combustione aveva cominciato a corrodere addirittura le pareti di ghisa della caldaia, col rischio di far esplodere la medesima. Un altro giacimento di carbone “sporco”, le miniere di lignite di Baccinello, erano già chiuse, se non ricordo male, nel 1958, quando Huerzeler scese in un cunicolo, per prelevare con gran baccano un fossile di oreopiteco, e portarselo in Svizzera, eludendo le leggi italiane sul divieto di esportazione dei reperti fossili ed archeologici: ma questo è un altro discorso. Entrato al CNR, ho compiuto, fino al pensionamento “forzato”, ricerche sui polimeri. Principalmente, su quelli biocompatibili e bioriassorbibili, ma, occasionalmente, anche su quelli strutturali: ed ho maturato la convinzione che questi appartengono al futuro, e l’acciaio e i metalli in genere, al passato. E di questo, l’industria italiana si sarebbe dovuta accorgere da lungo tempo. Invece, un mio collega che fa ricerche proprio sui compositi strutturali, ha sì ricevuto finanziamenti per la loro futura produzione industriale: ma da quale industria? Da quella polacca, che, scoprendosi in ritardo di almeno 50 anni, ha deciso di “saltare il gap”, entrando direttamente nel XXI secolo.
Forse sono andato un po’ “fuori tema”. Ma non posso farci niente: è il mio “delenda Carthago”.
Mi auguro che i lussemburghesi rilevino l’ILVA il prima possibile, come sta facendo Etihad con Alitalia. Non abbiamo imprenditori all’altezza della sfida e, data la situazione drammatica dell’azienda, lo stato italiano sarà “costretto” a trovare i soldi (nostri) per risolvere la situazione. E’ triste che bisogna sempre arrivare quando almeno buona parte dei buoi e’ scappata, ma purtroppo viviamo in un paese poco competitivo. Principalmente per ragioni di scarsa cultura d’impresa e meritocratica, che producono inettitudine e malaffare diffusi.