
Scola: «Non credo nei piani pastorali. Cerco sempre di assecondare la vita»
La fortuna del giornalista milanese che non si sposta in taxi ma, per problemi diabetici, sfrutta il passaggio delle sue proprie gambe per andare a ricevere il Buon Natale dal suo vescovo, è che “il vento del cambiamento”, dopo il primo semestre di giunta Pisapia, lo prende in faccia e lo sente un po’ freddino. Tipo una vigilia natalizia sobria, senza luminarie, con l’albero piantato bello storto nel centro di una piazza del Duomo rivestita a gocciole di lucine discrete discrete.
Tu vorresti portare l’attenzione comune anche su certi particolari che fanno di una città come Milano una metropoli un po’ triste (e anche un po’ insicura) quando i suoi cittadini traversano da pedoni il centralissimo Parco Sempione appena calato il sole. Ma non se ne parla. Perché poi ti danno del razzista e allora dici “no, grazie”, con garbo, ai marocchini che ti propongono “vuoi fumo?”. Perché poi ti danno dello xenofobo e allora non rispondi nemmeno ai colored in crocchio che ti fischiano dietro “ehi, zio, vuoi bamba?”. Perché poi ti passa la voglia di camminare per via Dante quando non fai un passo che ti si sbarra davanti un ambulante che “comprare” di qua e un “firmare” o un “salvare” qualcosa di là.
Insomma, è un bel tirare il fiato, raggiungere la curia arcivescovile in piazza Fontana e trovarsi in compagnia di un centinaio di colleghi che, alle quattro e trenta del pomeriggio di giovedì 22 dicembre, dialogano col cardinale arcivescovo Angelo Scola. E con tale appetito di interrogativi, che a un certo punto, don Davide Milani, ottimo collaboratore del cardinale, deve stoppare le domande e lasciare il passo allo scambio di auguri entrante. L’ennesimo (e anche questo è un bel modo di introdursi da pastore in città) dopo quello con i medici e gli operatori della sanità, tra Scola e i rappresentanti del mondo del volontariato.
In punto di principio (fatto salvo il duro mestiere dei reporter televisivi che aspettano le conclusioni per piazzare il microfono, fermare un primo piano, catturare una battuta della serie «cosa augura il cardinale ai milanesi in questo momenti di crisi?» o «che speranza può avere chi ha perso il lavoro?»), Scola avrebbe detto tutto quando, a saluto introduttivo, dice: «Vi ringrazio per aver accettato l’invito così in tanti, volevo solo dirvi grazie per l’aiuto che date alla comunicazione a tutta la nostra gente di ciò che il vescovo e tutta la comunità ambrosiana cercano di fare, comunicando il grande avvenimento che celebriamo in questi giorni, il Santo Natale, questa grande risorsa di Dio che si fa bambino e accompagna la vita di ciascuno». Dopo di che, trascorre una bella oretta prima che il cardinale ci impartisca la sua benedizione.
Delle molte considerazioni ascoltate – molto articolate, offerte con il gusto di chi punta a renderle comprensibili e spera persuasive all’orecchio del proprio interlocutore – ce ne sono alcune così prepotentemente laiche da far strabuzzare anche l’occhio delle telecamere. Ad esempio, per sostenere la lotta alla povertà, Scola rilancia un’idea che ha raccolto dal vicario del patriarcato veneziano e non si fa scrupolo di rilanciarla ai suoi uditori: «A Venezia la Chiesa ha proposto alle famiglie benestanti di adottare quelle in difficoltà: è stato un successo, perché non proporlo anche a Milano? “Adotta una famiglia”, perché non lanciate anche voi questa idea?».
Ma il successore dei cardinali Martini e Tettamanzi rifiuta ostinatamente ogni coercizione e ricatto morale. Anche se a fin di bene o per “scelta dei poveri”. Difende con i padri della Chiesa «il valore della proprietà privata» e ricorda che «quella cristiana non può mai essere una carità imposta, perché Cristo parla alla libertà umana. In Kenia ho visitato gli slums e, lo ammetto, volevo scappare tanto mi davano ripugnanza. Poi ti imbatti in quelle tre suorine che hanno fatto degli slums la loro casa. Impari da loro. Ma lo stesso, non può essere un’imposizione, una violenza, un’utopia».
Altro tema molto dibattuto: come faccia la Chiesa a coniugare il suo messaggio di povertà e sobrietà con il suo essere istituzione. Risposta di Scola: «L’uomo è fatto di anima e di corpo. Come noi abbiamo bisogno di scheletro, inevitabilmente la vita associata ha bisogno di istituzione. Come il nostro io ha bisogno di un corpo per comunicare, così ogni realtà umana comunica con una struttura». Ciò detto, «il fondo ultimo dell’io è spirituale, quindi è vero: se la struttura prevale sulla vita come espressione della totalità dell’io, lascia andare dietro alle spalle la potenza creativa di una razionalità commossa, radicata nel cuore e nell’azione dell’io, e prende il sopravvento, la struttura ci uccide la vita. Io non ho mai visto nascere una vita se non da una vita già in atto, come dimostra il rapporto tra un uomo e una donna. Non può mai essere l’organizzazione o la struttura che fa nascere. Mai. Mai. Più è debole la consistenza dell’io e delle sue relazioni, più è debole il “per chi” io mi muovo, più sarò tentato di consegnare alla struttura e alla programmazione organizzativa la totalità della vita personale e associata. E questo ammazza la vita».
Altra dinamite? Eccola: «Io non sono un uomo di piani pastorali, non credo nei progetti pastorali, cerco sempre di assecondare la vita perché la chiesa di Dio è fatta dallo spirito di Cristo risorto che suscita doni, persone, realtà associate. Il compito di chi guida è dare un orientamento affinché ciascun uomo abbia il suo posto, pur che l’uomo abbia il senso dell’unità».
Del suo arrivo a Milano il nuovo arcivescovo ha parlato con altrettanta confidenza. «Sto inserendomi, devo dire che sono piuttosto stanco, ma sempre più a mio agio. Qualcuno mi aiutò nei momenti più delicati del passaggio da Venezia dicendomi che essendo io lombardo in fondo il mio era un ritorno a casa. Ed è vero, sto constatando che sono tornato a casa mia e credo che capiti anche a voi, a casa si sta bene, a casa mia io sto bene. Il ritmo è un po’ incalzante, l’età non è più fresca, il mio desiderio è uno solo: far fronte per come sono capace, nei limiti e nelle mie fragilità, al compito che il Signore mi ha dato e il Papa ha confermato. Cioè accompagnare il popolo di Dio e di Milano a vivere secondo la bellezza, la bontà e la verità del dono che ha ricevuto: un Dio che si fa bimbo, un Dio che si è “abbreviato” – come dicono i padri della Chiesa – per raccogliere la nostra piccolezza e per consentirci di vivere la speranza certa dell’eternità già fin d’ora, come anticipo dell’eternità stessa, facendoci sperimentare un modo più gustoso di amare, di lavorare, di riposare, di costruire la città dell’uomo».
L’ideale di cittadino secondo il cardinale di Milano? «Un uomo che è capace di virtù teologali – fede, speranza, carità – ma anche cardinali – prudenza, giudizio, fortezza e temperanza – un uomo simile, come diceva Peguy, è anche un cittadino eccellente».
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