
Sbatti il padrone in prima pagina
Pubblichiamo l’articolo apparso su Tempi il 13 marzo 2008.
Sono il famoso uomo nero, con il cappottone grigio topo e l’occhiale scuro scuro, che fa paura a grandi e piccini. Sono qui, davanti al supermercato Esselunga in viale Papiniano, a Milano, teatro dei crimini che stanno facendo mobilitare i sindacati (corteo del 7 marzo) e la Federconsumatori-Cgil (8-9 marzo) per lo sciopero della spesa (fallito) contro quel piccolo Adolf Hitler di Bernardo Caprotti. Vuoi vedere che la causa di tutto questo casino non è la povera cassiera peruviana di cui tra poco diremo, ma quel fantastico Falce e carrello che ha svelato i metodi delle varie trimurti per tentare di convincere il Caprotti a mollare l’azienda e a ritirarsi ai Caraibi fino a che Dio lo abbia in gloria? Mi infilo in punta di piedi nel supermercato e chiedo lumi alla prima cassiera, bella e biondina, che incontro. «Scusi, è questo il famoso lager Esse-Esselunga». «Lager?». «Perdoni, volevo solo sapere se e dove posso fare pipì». «Ma prego, si accomodi, giù in fondo, attraversato il negozio, nel magazzino, faccia attenzione c’è un gran via vai di carico e scarico, a sinistra troverà la toilette». Eh, eh. Volevo strozzare una commessa e una commessa mi ha bel bella indicata la via. Dunque. Attraverso tutto il supermercato. Entro nei magazzini. Viavai di addetti. Trovo un responsabile del negozio, lo interrogo: «Scusi, è qui che è successo il fattaccio?». «Prego, le faccio strada». Scendiamo negli spogliatoi. Bussiamo alla porta (non sia mai che c’è una cassiera nuda). Il posto è davvero angusto. «Perdoni, ma come faccio a prendere una commessa da dietro, trascinarla nel bagno qui accanto, metterle la faccia nel water e abbandonarla per terra supina, se qui due persone non ci passano nemmeno? E poi sai che casino?». «Non so. No comment. Lasciamo che le indagini della magistratura facciano il loro corso». «Scusi, ma quando è successo il fattaccio, qui c’era proprio un cimitero, dico, non c’era proprio nessuno in giro? O magari avete una porticina segreta che sbuca dritta dritta nel mondo di Narnia?». «Nel locale qui accanto c’era un sorvegliante e qui si accede solo per questa scala». Dunque, a quanto risulta a Tempi dopo un sopralluogo al negozio Esselunga di viale Papiniano e grazie all’uso del metodo del testimone, della buona fede e del buon senso, il 2 febbraio scorso una cassiera peruviana di 44 anni – chiamiamola Giovanna, come per ragioni di privacy la chiama Repubblica – alza la mano e chiede di essere sostituita da una collega per andare in bagno. Giovanna aspetta tranquilla senza protestare alcuna impellente necessità. Giovanna non rinnova la richiesta, ma poi, «alle 17.44» esatte, secondo la ricostruzione di Repubblica del 20 febbraio (pagine milanesi), «ha cominciato a piangere. E alla fine non è più riuscita a trattenersi, nell’imbarazzo dei clienti e dei colleghi. Solo a quel punto, vedendola tanto in crisi, le sindacaliste le hanno consigliato di andare in bagno anche senza l’autorizzazione del capo reparto». Rientrata alla cassa – secondo la nostra versione dei fatti – Giovanna mostra gli indumenti bagnati e riceve il consiglio di tornare a casa. Ma Giovanna, invece, vuole tornare al suo posto. E così riprende a lavorare. Poi, al termine della giornata, si reca al pronto soccorso. Dove le diagnosticano una cistite emorragica, riceve un certificato medico (15 giorni di malattia) e nei giorni seguenti va a iscriversi al sindacato Uiltucs-Uil, lo stesso a cui è iscritta la collega che, sostiene il Corriere della Sera Milano del 20 febbraio, «ha assistito alla scena» e «testimonierà in tribunale». Secondo la versione che Giovanna offre a Zita Dazzi di Repubblica, è invece successo che «umiliata, ferita, piena di vergogna per l’accaduto, e ancora bagnata fradicia non avendo un vestito per cambiarmi a disposizione, ho comunque lavorato fino a fine turno – le 21.30 – e mi sono sentita male proprio per aver atteso tante ore per far fronte alle mie necessità fisiologiche». Prima di proseguire nel nostro racconto permetteteci una digressione. Il lettore forse ne converrà: che interesse ha un’azienda (e per di più un’azienda di successo e fatturati da capogiro come Esselunga) a promuovere questo genere di mobbing? In quale favola di autolesionismo imprenditoriale esistono manager che impongono ai propri dipendenti ritmi di lavoro tali da costringerli a farsi pipì addosso? Ma andiamo avanti.
Titoloni vendicativi
Nel frattempo, questa storia connessa a una cistite (a quanto pare scoperta dopo, non prima dell’episodio in questione, come invece lasciano intendere le ricostruzioni interessate al mobbing crudele) arriva alle orecchie dei giornali per vie sindacali. E nella versione più utile a descrivere chi è realmente il patron di Esselunga, autore dello scomodissimo (per sindacati e Coop) ma fortunatissmo (per le vendite) Falce e carrello. “Un altro episodio di vessazione nei supermercati di Bernardo Caprotti” titola l’Unità. “Costretta a farsi la pipì addosso”, il Corriere della Sera. “Bagno vietato alla cassiera”, la Repubblica.
Un’aggressione perfetta
Giovedì 28 febbraio, dieci giorni dopo il rientro dalla malattia (e dopo che il 20 febbraio aveva dichiarato a Repubblica che «mi faranno pagare duramente quel che è successo»), nello stesso supermercato Esselunga di viale Papiniano, avviene il fattaccio su cui sta ancora indagando la procura e la squadra mobile di Milano. Giovanna viene trovata semisvenuta nel bagno degli spogliatoi. Giace in posizione supina, con in bocca qualcosa che somiglia a un tovagliolo. Subito rianimata dal direttore e trasportata in ospedale, le diagnosticano un “politrauma”, le impongono un collarino e dieci giorni di riposo. Il misfatto è accaduto dopo che Giovanna ha chiesto di andare in pausa da sola. Ai giornali dice di essere stata aggredita alle spalle, mentre era seduta sulla panca dello spogliatoio, da un uomo che l’ha zittita mettendole un tampone in bocca e l’ha bendata. La voce di quell’uomo, «dall’accento meridionale», a Giovanna risulta sconosciuta. L’aggressore l’avrebbe presa per i capelli, le avrebbe pestato la testa sugli armadietti, l’avrebbe trascinata nel bagno attiguo e abbandonata in terra dopo averle messo la testa nel water dicendole: «Piscia, piscia, piscia. Così impari a non parlare troppo». Giovanna, in un’intervista a Repubblica (1 marzo, cronaca milanese, pagina III), la più completa di quelle apparse (sebbene sia collocata accanto a un altro articolo dello stesso giornale in cui l’autore scrive che Giovanna «contattata telefonicamente, non ha voluto commentare: “La situazione è delicata un’indagine è in corso e qualsiasi dichiarazione potrebbe essere inopportuna”»), racconta anche che «ho cercato di graffiarlo… almeno mi sarebbero rimaste tracce del suo Dna sotto le unghie. E gli ho morso un dito, ma ho sentito che aveva guanti di plastica». Dunque, dell’aggressore nessuna traccia. Nei giorni successivi si scatena una tempesta di agitazioni sindacali, articoli, servizi televisivi. Il primo marzo i sindacati promuovono lo sciopero, il presidio e un picchettaggio di otto ore in tutti i supermercati Esselunga (agitazioni a cui, a dire il vero, i lavoratori Esselunga non aderiscono). Segue la mobilitazione del governo Prodi nella persona del sottosegretario alla Solidarietà sociale ed esponente del Partito democratico Cristina De Luca. E un flusso continuo di telecamere davanti al negozio di viale Papiniano.
La Cgil non chiedeva di meglio
Intanto, sempre davanti al supermercato di Caprotti, si susseguono manifestazioni di sindacalisti esterni all’azienda, un nuovo sciopero dei dipendenti (7 marzo) e uno sciopero della spesa indetto dalla Federconsumatori-Cgil (8 e 9 marzo). Da notare che nel negozio dove sarebbero occorsi gli episodi di mobbing crudele e di crudele aggressione, su novanta colleghe della povera vittima, soltanto due (le due colleghe di sindacato) hanno aderito ai vari scioperi e agitazioni. Da notare, infine, che a Stefania Consenti, cronista del Giorno, Giovanna dice: «Di cambiare sede di lavoro neanche se ne parla: “Lì – sussurra con un fil di voce, e suona veramente strano – mi sento più protetta. Ho fiducia, voglio restarci in viale Papiniano”» (il Giorno, 1 marzo, pagina 7). Conclusione di questa storiaccia? Graziella Carneri, segretaria della Filcams Cgil, parla di «intollerabile clima di intimidazione e di ricatto, con continue vessazioni per tenere sottomessi i lavoratori di Esselunga». Addirittura. Come vedono bene tutti i clienti che magari non fanno la spesa in Coop, ma a Esselunga magari ci vanno volentieri, è chiaro che ovunque, nei negozi di Caprotti, c’è un clima di terrore, le cassiere sono vessate e persino gli scaffali delle patatine friggono dalla voglia di vuotare il sacco. E che dire dei fagiolini? Come spiega ancora la Cgil per bocca della Carneri, non vedono l’ora di sottoscrivere la domanda di trasferimento agli scaffali Coop, poiché «riteniamo la società responsabile del clima di paura che ha portato a questo tragico episodio, evidente ritorsione contro il coraggio della lavoratrice che accusa di mobbing l’azienda». Ora è finalmente diventata di tutta evidenza l’imbecillità di Bernardo Caprotti. Imprenditore che con Esselunga fattura miliardi di euro, che ha costruito un impero senza eguali nella grande distribuzione italiana, ma che, alla bella età di 82 anni, non vedeva l’ora di buttare via immagine, impresa, miliardi, tutto. E per quale ragione? Per «evidente ritorsione» (e non per strada, ai giardini, sotto casa di Giovanna, ma proprio dentro casa sua) nei confronti di una povera cassiera peruviana.
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