Savimbi, ovvero l’Africa mistificata

Di Rodolfo Casadei
28 Febbraio 2002
Sono sempre pronti a gridare contro le presunte manipolazioni di Berlusconi, ma i primi a usare i media per mistificare i fatti sono sempre loro. Pur di negare le responsabilità storiche dei paesi comunisti (Portogallo dei garofani, Cuba e Urss) nella tragedia dell’Angola e addossare tutte le colpe all’Occidente, la stampa di sinistra italiana e britannica racconta fole all’indomani dell’uscita di scena di Jonas Savimbi di Rodolfo Casadei

Era scontato. Adesso che l’orco è morto, il profluvio di falsità storiche, mistificazioni propagandistiche e volute omissioni non conosce argini. L’orco è Jonas Malheiro Savimbi, 67enne leader dell’Unita, il movimento guerrigliero angolano che da oltre 26 anni contende il potere ai post-comunisti dell’Mpla, il partito-Stato del presidente José Eduardo dos Santos. Il 22 febbraio scorso il leader ribelle in fuga è stato abbattuto nei pressi di Moxico. Omissioni, mistificazioni e falsità sono i mattoni con cui la stampa di sinistra, non solo italiana, ricostruisce in questi giorni la vicenda storico-politica dell’Angola per dare la colpa delle sue sofferenze all’Occidente. Sarebbe colpa dell’Occidente se l’Angola, già colonia africana del Portogallo, dopo la proclamazione dell’indipendenza nel novembre 1975 non ha mai conosciuto la pace e i tre movimenti indipendentisti sorti nel suo seno (Mpla, Fnla e Unita) hanno preso a combattersi fra loro. Il triste destino dell’Angola, insomma, sarebbe il paradigma di quello dell’Africa post-coloniale, vittima della Guerra fredda senza responsabilità in proprio. In Angola le cose sarebbero andate male perché, come ha detto lo scrittore ivoriano Kouroma in una trasmissione su Rai 3, «l’Occidente ha scelto di appoggiare un criminale», Savimbi appunto, che negli anni ha goduto del sostegno finanziario e militare del Sudafrica dell’apartheid, degli Usa di Ronald Reagan e dello Zaire di Mobutu. Per queste ragioni, dunque, l’Mpla si trovò nella necessità di fare ricorso alla “solidarietà internazionalista” cubana, sotto forma di un corpo di spedizione di 20-40 mila unità (a seconda dei momenti) che diede manforte all’esercito governativo fra il 1975 e il 1989. Nel 1975, cioè, «l’Unita proseguì la guerra civile d’intesa con l’Fnla e Agostino Neto (il leader dell’Mpla – ndr) chiamò in suo soccorso l’Urss e le truppe cubane» (Il Manifesto , 24 febbraio) e «solo la presenza di decine di migliaia di soldati cubani a sostegno del governo dell’Mpla impedirono che il regime dell’apartheid e i suoi agenti dell’Unita prendessero il potere» (The Guardian, 23 febbraio).

Quando i garofani erano rossi

La realtà storica è parecchio diversa. Non è vero che i primi soldati cubani sono arrivati in Angola l’8 novembre 1975, per compensare la presenza di militari sudafricani a fianco dell’Unita nel sud e di soldati dello Zaire a fianco dell’Fnla nel nord; ed è falsissimo che quell’operazione, come scrisse Gabriel Garcia Marquez, era stata decisa da Fidel Castro «solo tre giorni prima». Decine di consiglieri militari cubani a fianco dell’Mpla erano presenti in Angola almeno dalla primavera (come ben ricorda Lucio Lami, che per più di un decennio ha raccontato la guerra civile angolana) e da mesi era in preparazione l’“operazione Carlota”, che avrebbe condotto l’Mpla alla vittoria militare sui suoi rivali dell’Fnla e dell’Unita (con cui pure aveva sottoscritto gli accordi di Alves nel gennaio 1975) grazie al decisivo contributo cubano. Tutto ciò era stato possibile grazie al ruolo dell’ammiraglio Rosa Coutinho, militare comunista esponente del “Movimento democratico delle forze armate” portoghesi che era stato nominato governatore dell’Angola nel settembre del 1974 sull’onda della “Rivoluzione dei garofani” in Portogallo. Sotto il governatorato di Rosa Coutinho, i portoghesi trasferirono uomini e armi al filosovietico Mpla: le truppe africane dell’esercito coloniale -i “gendarmi katanghesi” e le temibili “flechas”, tiratori scelti- furono smobilitate e integrate alle forze dei guerriglieri afro-comunisti. Sotto lo sguardo compiaciuto dei “soldati democratici” l’Mpla scacciò manu militari dalla capitale Luanda prima i suoi dissidenti interni (febbraio), poi l’Fnla (luglio) e infine l’Unita (agosto), senza che il governo coloniale in carica alzasse un dito. Quando, tre giorni prima dell’indipendenza, i cubani dell’“Operazione Carlota” atterrarono a Luanda, l’aeroporto era ancora sotto controllo portoghese. La parzialità dell’amministrazione colonial-comunista in favore dell’Mpla risulta tanto più grave in quanto gli accordi di Alvor del gennaio ’75 fra i 3 movimenti erano stati sottoscritti sotto gli auspici dell’Oua, l’organizzazione dei paesi africani che fino a quel momento riconosceva come autentico rappresentante del popolo angolano il governo in esilio creato nel 1962 dal Fnla.

Mpla: comunisti e anche parecchio etnicisti

Smontata la leggenda faziosa secondo cui in Angola i primi a “giocare sporco” sarebbero stati gli occidentali, va fortemente ridimensionata anche quella che pretende di spiegare il conflitto esclusivamente nei termini di una tipica “guerra per procura” dei tempi della Guerra fredda. Il dualismo Mpla-Fnla non è mai stato meramente ideologico, ma etnico-sociale: il primo movimento riuniva soprattutto gli elementi urbanizzati e di etnia kimbundu o meticci (i veri “padroni” dell’Mpla, pur rappresentando solo il 2 per cento di tutta la popolazione), il secondo invece i bakongo, più tradizionalisti e rurali. Gli ovimbundu, che sono la popolazione dell’altopiano e il gruppo di maggioranza relativo (37 per cento degli angolani), non hanno mai avuto dirigenti di livello nazionale nell’Mpla e nell’Fnla il solo Savimbi. Il quale però fu espulso nel 1964 perché insidiava la leadership del capo dell’organizzazione, Holden Roberto. Cercò allora di entrare nell’Mpla, col quale era in contatto da anni, ma fu respinto. Decise perciò di giocare la carta etnica, e fondò nel 1966 l’Unita, la cui ideologia indigenista rifletteva la realtà degli ovimbundu, l’etnia angolana meno integrata. Quello che l’Unità scrive su Savimbi («esce di scena l’uomo che ha tenuto vivo lo scontro utilizzando l’etnia e la divisione etnica là dove prima non esisteva») è quindi l’ennesima mistificazione in materia. Il giornale legato ai Ds farebbe meglio a intrattenere i suoi lettori su di un’altra divisione che Savimbi seppe sfruttare (e che Il Manifesto invece evidenzia onestamente): quella fra comunisti cinesi e comunisti sovietici. Il defunto leader dell’Unita ricevette addestramento all’Accademia militare di Nanchino insieme ad undici compagni nel 1965 e si proclamò maoista fino a quando non divenne presidente degli Stati Uniti Reagan. Crudele come Macbeth, Jonas Savimbi, ma per niente scemo.

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