La preghiera del mattino

“Sanzioni sanzioni sanzioni”, intanto l’import di petrolio dalla Russia è quadruplicato

Cisterna di petrolio Lukoil
Una cisterna di petrolio della multinazionale russa Lukoil (foto Ansa)

Su Huffington Post Italia Massimiliano Di Pace esamina l’effetto delle sanzioni: «Lo stop temporaneo al sesto pacchetto di sanzioni dell’Unione Europea alla Russia, annunciato dalla presidente della Commissione dell’Ue, Ursula von der Leyen, oltre due settimane fa (il 4 maggio per la precisione), per l’opposizione dell’Ungheria, dovrebbe far riflettere sulla circostanza che la ricerca della punizione più efficace per la Russia, indiscutibilmente unica responsabile della distruzione di buona parte dell’Ucraina, e delle conseguenti migliaia di morti, molti dei quali civili, non stia effettivamente portando l’Occidente a perdere di vista l’interesse delle economie dei paesi sanzionanti, e a commettere quindi qualche autogol».

L’ansia di sanzionare Vladimir Putin per la sua aggressione è comprensibile, però se si vuole ottenere un risultato non autolesionista, che finirebbe con l’indurre le opinioni pubbliche europee a una modifica dell’atteggiamento, bisogna studiare bene e nel merito le iniziative. Il peggio è annunciarle con grande enfasi e poi rimanere bloccati quando si tratta di applicarle, ed è questa la condizione in cui si è cacciata la Commissione europea.

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Su Formiche Marco Battaglia interroga il vicepresidente dell’Istituto Affari internazionali Michele Nones sulle prospettive dell’integrazione del sistema di difesa europeo. Nones osserva che «l’Unione Europea ha cominciato ad accelerare il processo di rafforzamento delle proprie capacità militari dopo l’uscita dall’Afghanistan, quando è diventato evidente che le forze armate dei paesi membri non sarebbero state in grado di uscire, in condizioni di sicurezza, da quel teatro senza l’intervento diretto americano. Con l’invasione russa dell’Ucraina, poi, l’Unione ha preso atto di essere impreparata a un simile scenario. La repentina accelerazione, dunque, non è dipesa dall’Europa, che si è trovata a gestire una crisi epocale non avendo il tempo necessario per predisporre con maggiore serenità eventuali contromisure. E, per definizione, gli interventi straordinari sono più soggetti al rischio di commettere errori, dal momento che non c’è tempo per effettuare le opportune verifiche».

Riflettere sulle conseguenze del ritiro occidentale dall’Afghanistan come punto di partenza della consapevolezza europea di inadeguatezza del suo sistema difensivo significa che l’integrazione nella Nato è necessaria ma non sufficiente. Nonostante la valorizzazione talora addirittura eccessiva dell’alleanza atlantica, chi vuole rafforzarla deve riflettere su errori e debolezze, invece di suonare la fanfara.

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Su Fanpage viene riportata una dichiarazione del presidente Volodymyr Zelensky all’emittente nazionale ucraina: «“Prima pensavo che sarebbe stato possibile porre fine alla guerra solo con un dialogo”, ha detto Zelensky. “Pensavo che la soluzione sarebbe stata il dialogo, che questo dialogo avrebbe portato molte risposte ad altrettante domande e molte decisioni con la parte russa”. Ora, però, secondo il presidente dell’Ucraina “la fine sarà diplomatica”».

Naturalmente l’Ucraina insiste nella salvaguardia della sua integrità territoriale, ma il riferimento alla fine diplomatica apre un certo spazio a iniziative, compresa quella italiana, che cercano di aprire uno spazio per il confronto non solo militare. Zelensky è più ragionevole di quelli, come la Commissione europea, che hanno risposto a Mario Draghi che di cessate il fuoco si potrà parlare solo dopo un ritiro completo delle forze russe dall’Ucraina, cioè mai.

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Su Affaritaliani si scrive: «L’import di petrolio dalla Russia è quadruplicato rispetto al mese di febbraio. A rivelarlo è il Financial Times, che evidenzia come questo andamento delle importazioni sia in controtendenza rispetto agli sforzi dell’Ue tesi a ridurre la dipendenza energetica da Mosca».

Può darsi che si tratti di un tentativo di costituire delle riserve prima che si determinino blocchi nei rifornimenti, ma conviene sempre tenere di vista i dati reali, che in tempo di guerra sono spesso surclassati dal rumore di fondo della propaganda.

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Sul Sussidiario Giulio Sapelli scrive: «È vero che, dinanzi alla recessione che si avvicina a passi da gigante, teoria e prassi vorrebbero che la cura fosse quella di rilanciare la produttività e la crescita del Pil. Ma il Fmi (come del resto la Commissione europea) insiste nel punto archetipale errato e disastroso: “Per raggiungere tali obbiettivi”, si afferma, “sono necessarie […] ampie riforme strutturali […] (con) un ampliamento della base imponibile con effetti neutri per le finanze pubbliche, per rendere il sistema fiscale più equo”. Ma questo presupporrebbe, al netto degli interessi sul debito, “una crescita della spesa corrente inferiore di 2 punti percentuali rispetto alla crescita nominale del Pil”. Il che è paradossale, perché si richiede un equilibrio di mercato mentre si auspica una rottura dell’equilibrio medesimo: solo un tasso di crescita superiore al tasso di debito può ingenerare una virtuosità anti-ciclica. E questo un tempo – quando esistevano ancora università pubbliche degne di questo nome – lo si sapeva sin dal primo anno di corso… Ah! Le università di un tempo dove insegnavano Lombardini, Momigliano, Coda e Caffè e non i cosiddetti “professori” attuali mai vincitori di concorso».

L’ossessione per il debito nasce da antiche esperienze tedesche del primo dopoguerra. Sarebbe ora di superare psicosi così retroattive, altrimenti si preclude o almeno si limita moltissimo lo spazio per la crescita.

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Su Startmag Paola Sacchi scrive a proposito delle recenti esternazioni di Silvio Berlusconi: «Ribadisce, come aveva fatto a Roma all’hotel Parco dei Principi, dove si era detto “profondamente deluso da Putin“, che l’Ucraina “è il paese aggredito”, per cui non può che essere per la libertà dell’Ucraina, e che Fi “è sempre stata dalla parte dell’Occidente, dell’atlantismo, degli Stati Uniti d’America”. Ma, al tempo stesso, alla luce della fase che si apre, poiché la politica è sempre work in progress, afferma che assistiamo ora “a uno sviluppo incontrollato del conflitto”, che, allibito, assiste “al fatto stesso che si parli con facilità, a differenza di quanto accadeva nella Guerra fredda, di uso del nucleare”.

Molti mettono in luce gli innegabili salti nelle espressioni di Berlusconi, ma la contraddizione tra l’esigenza di aiutare gli aggrediti ucraini e quella di non provocare una escalation inarrestabile del conflitto sta nei fatti e nessuna retorica può cancellare questo drammatico dilemma.

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Sulla Nuova Bussola quotidiana Stefano Magni scrive: «Insomma che militari cinesi stiano addestrando gli Haqqani a Bagram, assieme a specialisti pakistani e iraniani, non è una notizia assurda. In Asia sta formandosi un’alleanza inedita che sfonda le interpretazioni dogmatiche, come quelle secondo cui sciiti e sunniti non possono cooperare, o che la Cina e il mondo islamico non possano essere amici. Sono luoghi comuni da sfatare. I cinesi perseguitano i musulmani (uiguri, soprattutto) nello Xinjiang. Attualmente, il regime comunista di Pechino è il maggior persecutore di musulmani nel mondo. Ma i paesi musulmani, sia sunniti che sciiti, non lo considerano un problema esistenziale. Fra i primi accordi Cina-talebani, oltre all’aiuto economico indispensabile per la sopravvivenza dell’Afghanistan, vi è la promessa che l’Afghanistan non diventi retrovia di gruppi armati uiguri, a cui potrebbe aggiungersi la deportazione degli uiguri nella Repubblica popolare. Regimi totalitari cooperano fra loro nel nome della sicurezza interna. E nel prossimo futuro, non solo per quello».

L’idea che a guidare le azioni di regimi autoritari siano l’ideologia o la religione porta a confondere la copertura propagandistica con gli interessi di potere reali.

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Su Dagospia si scrive: «Ennesimo sondaggio choc per il povero Joe Biden. Secondo la rilevazione di Ap-Norc Center for Public Research, soltanto il 39 per cento degli statunitensi approva l’operato del presidente in carica. Ormai anche gli elettori democratici hanno perso fiducia in “Sleepy Joe”: solo il 33 per cento sostiene che il paese stia andando nella giusta direzione. È un crollo di consensi tremendo per il “disaster-in-chief”, considerando che ad aprile la percentuale di approvazione tra chi votava il partito dell’asinello era al 49 per cento».

Il bello della democrazia è che spetta al popolo confermare o smentire le scelte di chi è, temporaneamente, al governo (ma naturalmente contano i voti e non i sondaggi, che però spesso esprimono tendenze poi verificate concretamente).

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