Il complicato rapporto tra cristianesimo ed economia

Nel volume "Per Dio e per il profitto" Samuel Gregg prova a conciliare cattolicesimo e liberismo. Si può non restare schiacciati sulla dimensione economica dell’esistenza umana e però non essere nemici del mercato?

Papa Francesco (Ansa)

È banale ricordarlo, ma quando si parla di faccende umane è sempre bene tenere a mente che non esiste la totale oscurità o la luce assoluta: l’uomo è imperfetto e, di conseguenza, lo sono le sue creazioni. Questa premessa vale ancor di più quando parliamo di economia, di mercato, di finanza. Parole che immediatamente suscitano quantomeno scetticismo, se non risoluta ostilità. Se ciò è vero per i laici, lo è a maggior ragione per i cristiani. È sufficiente ascoltare quanto di solito sostiene il papato attuale sul punto. A ciò, tuttavia, si può ben fornire una spiegazione storica che affonda le radici nel milieu culturale in cui Bergoglio è cresciuto, come non si stanca di ripetere uno studioso serio come Loris Zanatta.

Il delicato rapporto tra cristianesimo ed economia

Eppure, le cose sono più complicate di così, quando si parla del delicato rapporto tra cristianesimo ed economia. Ne parla Samuel Gregg in un recente volume tradotto per l’editore senese Cantagalli: Per Dio e per il profitto. Banche e finanza al servizio del bene comune. L’autore è un ricercatore che si prefigge di conciliare, e non da oggi, una prospettiva che potremmo definire cattolica e liberale, à la Lord Acton o anche Wilhelm Röpke – al quale peraltro ha dedicato un libro (Wilhelm Röpke’s Political Economy, Edward Elgar 2010).

Una concezione delle cose umane che combini, per quanto imperfettamente possibile, fede e ragione, ordine e libertà, cristianesimo e liberalismo. Non è un caso che in un suo volume passato, intitolato On Ordered Liberty. A Treatise on Free Society (Lexington 2003), esordisca con una citazione di Edmund Burke e concluda con un pensiero di Alexis de Tocqueville: due pensatori che certamente hanno promosso una visione equilibrata della libertà, non schiacciata sulla dimensione economica dell’esistenza umana, ma certamente non nemica del mercato, anzi.

Ricchezza e felicità

Il difficile rapporto tra cristianesimo ed economia, spiega Gregg nella prima parte del libro, è risalente. In realtà, ancor prima dello sviluppo del cristianesimo è maggioritaria una concezione visceralmente critica dell’economia. Solo a mo’ di esempio, per Platone, il commercio distoglieva l’uomo da più nobili occupazioni. Il possesso di ricchezza, inoltre, rendeva impossibile all’uomo raggiungere la felicità. Per Aristotele, d’altro canto, esistevano due forme di arricchimento. La prima “buona”, l’economia, in quanto produceva il necessario per il benessere della comunità. La seconda, la crematistica, da rifiutare poiché si caratterizzava per il perseguimento della ricchezza come fine in sé.

La finanza orientata al bene comune

Ma Gregg si focalizza soprattutto sul tema dell’interesse, cruciale per inquadrare la finanza. E così, alcuni Padri della Chiesa, per esempio Lattanzio, misero in evidenza come avere indietro più di quanto si presta è da considerarsi come una pratica ingiusta. Per inquadrare tutto questo, rimarca Gregg, è importante sottolineare che l’idea del tempo era che l’economia fosse un gioco a somma zero: vi è chi guadagna perché vi è chi perde.

Durante il Medioevo, tuttavia, le cose in parte cambiarono. Diversi pensatori francescani – si pensi a San Bernardino da Siena – erano sì contrari all’usura, ma si resero conto come il denaro potesse avere un carattere produttivo o profittevole. Ma si pensi anche, successivamente, agli esponenti della Scuola di Salamanca, i quali ritenevano che l’interesse fosse un mezzo per calibrare il rischio. Il punto critico, dunque, è semmai un altro, come rimarcato nella prefazione da Ettore Gotti Tedeschi: la finanza funziona, moralmente, se è orientata al bene comune, ovvero a progetti realistici (e non utopistici) per la persona. Il profitto, pertanto, può ben accompagnarsi a Dio, come da titolo del volume, a patto che non diventi un fine in sé e serva la persona.

Il ruolo dell’etica sociale cristiana

Ciò apre la strada a un punto dirimente: non si può addebitare a un mezzo – l’economia, il mercato, la finanza – responsabilità che non possono che essere umane. In caso contrario, significherebbe ipostatizzare concetti che divengono agenti al posto degli uomini: che fine fa dunque il libero arbitrio? La persona diverrebbe, in altre parole, un manichino e la sua responsabilità verrebbe così annullata. L’attribuzione dei mali di questo mondo ad ipostasi che non hanno volto, allora, è semplicemente la scorciatoia per negare che l’uomo è libero di agire, e responsabile di ciò che fa.

L’economia, presa in sé, non è buona o cattiva. Nella lettera enciclica Caritas in Veritate (2009), Benedetto XVI invitava a riflettere sul fatto che, per ben funzionare, il mercato necessita di qualità extra-economiche coltivate dalle persone. Non solo. La tenuta delle istituzioni dipende, in ultimo, dall’assunzione della responsabilità di tutti gli attori (umani) coinvolti. La via tracciata da Gregg, un Catholic Whig, è quella che nel nostro Paese, per quanto minoritaria, ha espresso e continua a esprimere autorevoli voci: da Massimo Baldini a Dario Antiseri, da Sergio Belardinelli a Flavio Felice. Se il mercato è creatore di ricchezza, ma di per sé moralmente cieco, sta alla persona orientarlo attraverso l’etica sociale cristiana: l’alternativa è un mondo economicamente più povero e moralmente più misero.

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