Salini: «Sotto coi vaccini: comprarli e produrli in fretta. L’Ue non faccia da tappo»

Di Caterina Giojelli
10 Marzo 2021
L'eurodeputato: «Siamo in guerra, errore mettere paletti burocratici come ha fatto l'Europa. Ora Italia in prima linea nella produzione, Bruxelles e Roma snelliscano le procedure»
Vaccino Covid

«Vacciniamoci, l’Italia produca i vaccini e la produzione di vaccini assuma finalmente i contorni di una reazione militare in guerra». Non solo perché, come vanno reiterando governi, medici e intellettuali da oltre un anno, “siamo in guerra”. Ma perché «in guerra non si segue la via ordinaria. Conformarsi alle procedure standard per gestire una pandemia è un errore che l’Europa, responsabile del collo di bottiglia tra distribuzione e produzione dei vaccini, non può più permettesi», spiega a Tempi Massimiliano Salini.

L’eurodeputato di Forza Italia non smette di chiedere all’Unione Europea di alleggerire i vincoli burocratici sulla filiera del farmaco e aiutare le aziende a produrre un numero sempre maggiore di vaccini, «per questo parlo di rezione “militare”. E sì che senza la pronta spinta alla ricerca finanziata anche dall’Europa non sarebbe stato possibile arrivare in tempi smisuratamente brevi ai risultati che normalmente si raggiungevano in quattro o cinque anni».

Massimiliano Salini

E abbiamo avuto un vaccino in dieci mesi, salvo poi aggiornare la narrazione sulle forniture promesse. Cosa è successo?

È prevalsa la spocchia istituzionale. L’Unione Europea si è posta nel rapporto con le case farmaceutiche come un’istituzione infallibile ancorata alle vecchie categorie di relazione, cioè dettando regole, prezzi, garanzie, tempi, eccetera. Si fanno ponti d’oro in guerra ai produttori di armi, per arrivare a risultati concreti, efficaci e disponibili nel più breve possibile: non è avvenuto così con le compagnie incaricate di produrre il vaccino. Nell’emergenza – mi tocca dirlo – ha prevalso in fase iniziale la pretesa sul portare a casa il risultato. Ora gli errori sono stati corretti ma la campagna vaccinale arranca: siamo alla situazione inedita per cui ogni singola dose prodotta viene oggi immediatamente distribuita, non c’è alcuna riserva per compensare eventuali interruzioni della produzione. Di più, avere l’Unione Europea come unico contraente di fatto, che ha limitato forzosamente, dall’alto e per via statale, la distribuzione di un prodotto che ha diversi valori di mercato, ha portato in tempo zero alla formazione dei mercati paralleli che sottraggono alla distribuzione parti rilevanti del bene da distribuire. Non si spiegherebbero altrimenti alcune stranezze sui ritardi dell’approvvigionamento. In questo concorso di colpa, ribadisco, l’Unione Europea non ha garantito una partenza corretta. Doveva inchinarsi alle case farmaceutiche, accompagnandole affinché si evitassero alcune delle storture di cui queste si sono rese protagoniste e affinché venisse garantito a qualunque prezzo – e sottolineo a qualunque prezzo, Israele docet – il vaccino in misura massiccia in tutti i paesi. Detto questo, ricordo che all’Italia sono stati garantiti come prenotazione più di 300 milioni di vaccini. Non sarebbe stato possibile senza l’Unione Europea, che ne ha prenotati 2 miliardi e 300 milioni per i 27 paesi membri.

Lei ha parlato del ruolo decisivo dell’Italia: esiste una via italiana al vaccino?

L’Italia ha due compiti, il primo identico a quello di tutti gli altri paesi: organizzare una produzione massiva di vaccini reperendo luoghi e personale. Le Regioni stanno reagendo in modo diverso, regna la confusione, determinata dalla scarsità delle dosi, ma anche dal fatto che nella prima fase non tutte le categorie del personale sanitario si sono dimostrate disponibili a vaccinare se non a prezzi molto alti. C’è poi una percentuale non bassissima di personale sanitario e cittadini non disponibili a farsi vaccinare, e questo impone una azione culturale molto forte: non vaccinarsi significa assumersi una responsabilità grave verso gli altri e questo rende necessaria una azione educativa, di popolo, che la politica è chiamata a favorire. E poi c’è il tema della produzione: l’Italia è un paese che ha una storia, soprattutto recente, nell’industria farmaceutica nel suo complesso brillantissima: in questo momento siamo leader europei nella produzione di farmaci. L’Italia ha superato la Germania e vanta competenze e numeri imponenti. Per questa ragione mi aspetto che il governo raccolga in maniera stringente e concreta tutte le forze industriali e universitarie dei centri di ricerca che abbiamo a nostra disposizione e dia quel colpo di reni nella produzione di vaccini di cui l’Italia e l’Europa hanno bisogno. Rimuovere ostacoli e snellire tutte le procedure autorizzative, comprese quelle per convertire gli impianti delle imprese farmaceutiche, in modo tale da consentire, laddove possibile, nuove linee di produzione dei vaccini che resteranno utili negli anni.

Il ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti ha appena firmato un decreto per liberare immediatamente 200 milioni per interventi di ricerca e riconversione industriale per la produzione degli vaccini, fondi che si affiancano alle ulteriori risorse previste nel decreto sostegni per la creazione del “Polo per la vaccinologia e farmaci biologici”.

Sicuramente Giorgetti ha preso in mano la situazione col piglio che lo caratterizza: estrema concretezza, individuazione di una squadra di consulenti particolarmente brillanti, tra cui l’ex ministro dell’economia Giovanni Tria, una potenza di fuoco adeguata alla necessità. Si tratta di risorse attivate in fase iniziale, non dimentichiamo accanto al Recovery Plan e il Next Generation Eu i filoni di possibili finanziamenti degli investimenti che l’Unione Europea da decenni mette a disposizione: da Horizon Europe, oltre 80 milioni di euro nell’ambito della ricerca e dello sviluppo, a InvestEu (ex Piano Juncker) per investimenti nel settore di impresa, fino ai finanziamenti sulle infrastrutture in cui rientrano gli hub industriali, le decine di miliardi di euro della Connecting Europe Facility. Insomma abbiamo un bilancio europeo che tra Next Generation Eu e altri filoni di finanziamento cuba 1.800 miliardi, una enorme quantità di risorse da mettere in circolo e un paese, l’Italia, con i numeri per giocare una partita da protagonista.

È stato firmato il primo accordo per la produzione del vaccino Sputnik in Italia, e primo di questo genere in Europa. Verrà prodotto in Lombardia e nel Centro Italia dall’azienda farmaceutica italo-svizzera Adienne Pharma&Biotech, che si dice pronta a fornire 10 milioni di dosi da luglio 2021 al gennaio 2022.

Ed è una notizia eccezionale: stiamo attendendo che il vaccino Sputnik venga autorizzato dall’Ema e questo accordo mette l’Italia nella posizione in cui deve stare: al centro del dibattito e al centro della produzione.

Però resta la narrazione: ancora oggi ci vengono puntualmente mostrate le foto degli assembramenti in relazione ai numeri delle terapie intensive, l’incolumità del paese dipende solo dal nostro stare a casa, tanto ci sono le condizioni: ci sono i ristori, tanto c’è la Dad. Non è ora di essere messi nelle condizioni di poter al contrario tornare a uscire, al lavoro, a scuola, essere vaccinati appunto per convivere e non evitare il virus?

Il problema non sono le foto, diffuse ovviamente in modo strumentale, o la reazione di chi affolla i centri storici dopo venti giorni di chiusura e che non sta nemmeno all’origine della particolare diffusione del virus. Il problema è uno Stato che in un anno non trova una maniera di cadenzare gli ingressi nelle scuole o evitare gli assembramenti sui mezzi pubblici: quello è il problema. Perché numericamente parlando riguarda una quantità di persone imparagonabile a quelle in piazza per un aperitivo. La narrazione si cambia con uno Stato con la consapevolezza e la capcità di porre le persone nelle condizioni di convivere col virus. Evitando in primo luogo di farsi ricattare dai sindacati sul cadenzamento degli ingressi e creando una riarticolazione degli orari di lavoro che consenta al maggior numero di studenti possibile di andare a scuola senza accalcarsi allo stesso orario sui mezzi. E in secondo luogo che favorisca e non ostacoli con la burocrazia la capacità di intrapresa e di lavorare in sicurezza delle aziende. Uno Stato che si piega alla capacità di riorganizzazione che la società ha dimostrato quest’anno in tempo zero. Non è stupido il cittadino che non sa usare la propria libertà, stupido è lo Stato che non è stato capace di fare il suo dovere, mettersi in discussione e fornire soluzioni nuove: come hanno accettato di stare chiusi in casa, allo stesso modo i cittadini avrebbero accettato di andare al lavoro o a scuola in orari e forme diverse. La narrazione dominante, che ripercorre quello che accadde durante la peste manzoniana senza alcun aggiornamento, ha un presupposto culturale che si fonda sull’idea però molto radicata in tutta Europa che il cittadino non sia capace di usare la propria libertà. E che la libertà del cittadino sia niente di fronte alla potenza dello Stato. Il risultato è che dopo un anno siamo ancora al punto di partenza.

Foto di Mehmet Turgut Kirkgoz per Unsplash

Foto Massimiliano Salini: Ansa

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