Russia-Georgia, in attesa di una soluzione perfetta, occorre cominciare a far stare meglio i bambini

Di Renato Farina
04 Febbraio 2013
La politica per essere carità (come dicono i Papi) non deve partire dalla politica ma dalla carità. Deve inchinarsi dinanzi al dolore, ascoltare la possente umiltà del popolo minuto.

Boris Godunov non vedeva l’ora. Poteva parlare di Russia in un consesso internazionale. In Consiglio d’Europa a Strasburgo si affrontava il tema di “Georgia e Russia: situazione umanitaria nelle regioni toccate da guerre e conflitti”. Boris era stato da quelle parti a fine settembre. Aveva visto i villaggetti prefabbricati a poca distanza da Gori, dove c’è la casa natale di Stalin.

Chi sta in quelle casupole? Non i superstiti di un terremoto, ma i fuggiaschi. Ricordate? Nel 2008 c’è stata un’invasione russa a sostegno di Ossezia del Sud e di Abkhazia che si sono dichiarati Stati indipendenti a dispetto di tutto il resto del mondo (salvo Venezuela, Russia e Transnistria). I profughi georgiani che abitavano lì non possono rientrare nelle loro case abitate dai soldati russi che fraternizzano con la popolazione russa che ha espulso chi non era consanguineo. È la malattia tremenda del nazionalismo, per cui si vuole ridisegnare il mondo con il filo spinato intorno a quelli della medesima etnia, uno ius sanguinis che versa molto sangue più che proteggerlo. Chi non è fuggito e non è russo non ha il diritto di insegnare il georgiano ai figli. Non sto qui a stabilire chi abbia la colpa di questo. Chi ha cominciato. Se debba prevalere il diritto all’unità dello Stato o quello dell’autodeterminazione.

Ma questa di Strasburgo era un’occasione magnifica. In assemblea c’erano anche i rappresentanti della Russia e della Georgia. Si trattava per una volta di non scannarsi, e di accettare con umiltà un bellissimo rapporto scritto da una svedese, Tina Acketoft, la quale chiedeva che tutte le parti – in attesa della soluzione perfetta – cominciassero a far stare meglio i bambini. Per cui scuole, ospedali, case. Un piano realistico.

Ed ecco è intervenuto un deputato russo. Lo conosco, è un tipo intelligente, di solito calmo, basta non farlo innervosire. Il presidente dell’Assemblea, il francese Mignon annuncia: «Ha la parola Mr Kalashnikov». Il mitra omonimo rispetto al Kalashnikov in carne e ossa è un piffero gentile. Si sentiva il tuono di Valeriy Yermilovich Kalashnikov. Idea centrale, in una traduzione che rende più moderato il discorso: i georgiani? Vadano al diavolo. Hanno perso, che cosa vogliono? Al che i georgiani hanno replicato (quasi) sullo stesso tono (impossibile raggiungere Kalashnikov).

Boris a questo punto ha intuito una verità molto semplice. La politica per essere carità (come dicono i Papi) non deve partire dalla politica ma dalla carità. Deve inchinarsi dinanzi al dolore, ascoltare la possente umiltà del popolo minuto.

Ho depositato il mio intervento. Lo trascrivo in sintesi: «Il linguaggio che abbiamo udito da parte di russi e georgiani non ha nessun codice di traduzione in una lingua comune. È il linguaggio della politica quando è ferita dalla guerra, una guerra che continua con le parole. Occorre cambiare linguaggio, e usare il linguaggio universale che nasce dalla compassione dinanzi al dolore di gente che ha perso tutto. Senza questo linguaggio originario, anche quello della più raffinata diplomazia e  politica non ha senso. Inchinandoci dinanzi all’umanità sofferente (questo è il senso dell’impegno e del diritto umanitario) facciamo il minimo senza cui non si è uomini, ma è anche il massimo oggi possibile per costruire un basamento di vita buona da cui ripartire per ogni dialogo che voglia essere costruttivo. Insomma, la politica ha bisogno dell’impegno umanitario, è un cordone che può salvare non solo le persone ma anche la politica, se essa accetta di inchinarsi dinanzi al singolo uomo, ponendolo come centro di tutto. Per questo occorre dire sì alle proposte semplici della relatrice svedese: invece dell’utopia, la saggezza del possibile!».

@RenatoFarina

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