
Rugby e carcere. Storia della Drôla, una fantastica «squadra di delinquenti»

Trenta uomini – cento e passa chili l’uno di pura massa muscolare – si sono inseguiti sul campo innevato, una maledetta domenica dopo l’altra. Si sono placcati in mezzo al fango. Sotto il sole cocente sono corsi verso la meta grondanti sudore con la palla ovale stretta in mano. Per questo i testimoni ricordano molto bene cosa è accaduto quando finalmente i 15 rugbisti della Drôla hanno conseguito la loro prima vittoria: «Mentre si recavano verso le docce, presi dall’esultanza si misero a fare una haka, la danza dei guerrieri maori resa nota dagli All Blacks, la nazionale neozelandese. I miei rugbisti, credetemi, fanno davvero paura se ci si mettono. Le loro voci, che in realtà erano solo piene di gioia, richiamarono subito l’attenzione e in men che non si dica si videro circondati da alcuni mitra. Gli agenti di polizia penitenziaria erano accorsi spaventati. Ma appena capirono che erano i ragazzi della Drôla, abbassarono le armi ridendo e si misero a festeggiare con loro». Così racconta a tempi.it l’unica persona per cui “i ragazzi della Drôla” abbiano un sacro timore reverenziale, il loro allenatore Walter Rista, una delle glorie della palla ovale italiana, membro della nazionale di rugby negli anni ’60 e ’70.
La squadra che oggi Rista allena a tempo pieno è l’unica italiana composta esclusivamente da detenuti (quelli del carcere Lorusso – Cutugno di Torino) a giocare in un campionato, la serie C2 piemontese: «Siamo arrivati quarti, ad un punto dai terzi, su dodici partite, nove vinte e tre perse. Ma siamo partiti con una penalizzazione di 8 punti. Siamo infatti considerati alla stregua degli altri. E la Federazione del rugby obbliga ogni squadra ad avere le under 12 e 14. Perciò noi, non avendole per ovvi motivi, siamo stati penalizzati», racconta orgoglioso Rista.
«SAREMO NOI I PRIMI». L’allenatore la chiama «la mia squadra di delinquenti» e dei suoi ragazzi (23 in tutta la rosa) è tremendamente orgoglioso. «Io questa cosa qui avrei dovuto farla prima. Ma come per tutte le cose servivano gli ingredienti giusti, e la vita me li ha messi a disposizione solo ad un certo punto». Prosegue: «Anni fa, a Torino, conobbi uno psichiatra e diventammo molto amici. Lui lavorava per il carcere, e io gli confidavo spesso il mio sogno di poter fare qualcosa per i detenuti. Così un giorno lui prese il telefono, fece una chiamata e me lo passò: “Toh prendi, parlane con lui del tuo desiderio”. Con lui chi?, gli chiesi. All’altro capo del telefono c’era Pietro Buffa, l’allora direttore del carcere le Vallette di Torino. Mi disse di andare da lui il giorno dopo. Mi chiese se qualcun altro avesse portato il rugby in carcere prima di me, se qualcuno cioè si fosse assunto questo rischio. Dissi di no, forse nemmeno nel resto del mondo. Mi rispose: “Ok, allora saremo noi i primi”. Ha scommesso tutto anche lui sulla squadra».
«LA SQUADRA E’ PER SEMPRE». Nel 2011 si sono giocate le prime partite. Da allora, la Drôla ha «giocato 120 match, 25 a campionato. Tutte in casa però e siamo gli unici. Siamo i soli anche a giocare in un campo di calcio dove dobbiamo montare e smontare le porte ogni volta. A fine partita, c’è sempre qualcuno che va a caricarsi i piloni in spalla, sotto la neve o la pioggia, e li riporta negli spogliatoi. D’altra parte, noi abbiamo pure gli antifurti sui pali da rugby, siamo gli unici al mondo pure in questo, perché evadere con i pali sarebbe facilissimo. Ma i miei giocatori nemmeno ci pensano».
D’altra parte, spiega Rista, «il rugby è uno sport che insegna che per vincere bisogna rispettare delle regole. E nel rugby non c’è il solista, ma la squadra. Il leader è il pallone e tutti gli altri sono comprimari: ma la squadra unisce per sempre. Io lo dico sempre ai miei ragazzi: voi quando sarete fuori potrete fare tutto quel che volete. Oddio, nel vostro caso quasi. Ma questa squadra la porterete sempre con voi».
Loro, i ragazzi della Drôla, al mister e alle regole rispondono con impegno e rispetto. Si allenano sei giorni su sette, tre in campo e due in palestra, almeno due ore al giorno. Non sgarrano di una virgola nel percorso deciso per loro dai magistrati. Chi fa parte della squadra (e le regole di selezione sono ferree: condanne per reati contro il patrimonio e non contro le persone, comunque mai superiori ai 15 anni, condotta in carcere non buona ma ottima) lo sa: se commetti una cavolata, sei subito fuori. Finora non è mai successo. «Se solo i politici capissero che con un lavoro la recidiva crolla del 70 per cento….» sospira sempre il mister.
LA MARMELLATA. Secondo Rista c’è stata nella Drôla «una crescita fondamentale. Il primo campionato abbiamo giocato sette partite, e le abbiamo perse tutte. Avevamo della gente che veniva dal nulla più assoluto: anni in cella a non fare niente e non erano più capaci di correre, anzi quasi nemmeno di camminare. Ai primi dovevamo insegnare tutto. C’è stato sempre un bel turn over tra chi entrava e usciva dal carcere. Oggi tra quelli fuori, 16 dei miei ragazzi giocano tutti in squadre professionali di rugby. E uno di loro ha seguito le mie orme, ed è allenatore e ci aiuta per formare la Drôla junior, la nostra giovanile. In campo ho tre o quattro ragazzi che, se avessero cominciato a 15 anni, anziché a 28, sarebbero in serie A. In terza linea abbiamo un bosniaco, Vladimir, alto 1 metro e 93 per 107 chili di massa muscolare. Dovreste vedere i danni che fa: è un bulldozer. L’ultima partita di campionato giocavamo contro il Biella. Vladimir si è preso una testata sullo zigomo pazzesca, il medico mi dice di farlo rientrare. Perde sangue, ha un taglio nell’arcata sopraccigliare di sei centimetri. Lui implora di giocare, che da sé non vede la gravità della ferita e mi domanda se è profonda. “No non hai niente, solo un graffio”, gli dico. Ha continuato fino alla fine, gli hanno dato poi otto punti, ma dovevate vedere con che soddisfazione ha concluso la partita».
Rista sorride. Racconta che il nome Drôla in piemontese significa “faccia strana, cosa buffa”. Poi aggiunge: «Il mio primo pensiero al mattino è come portare la marmellata ai miei ragazzi. In carcere non possono mangiarla, ma loro con gli allenamenti che fanno devono pur mangiar bene».
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