
Rivoluzionari senza Rivoluzione

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Oggi Eduard Limonov vive in un palazzo vecchio di cent’anni poco lontano da una stazione ferroviaria nel centro di Mosca. Si direbbe che tutti i dettagli siano ugualmente importanti per lui. Per esempio il fatto che viva in quel posto esattamente ora, dato che, come racconta, non ama passare troppo tempo nello stesso appartamento. E poi che sia un edificio dell’epoca zarista, con il bagno di una volta e tutto il resto.
Nel cortile un giovanotto sui trenta di nome Sergeij aspetta gli ospiti e li guida sulla scale: è un tipo robusto e pulito, porta una camicia a quadri e dalla camicia spunta un crocifisso d’oro che gli batte sul petto depilato. Potrebbe essere un assistente personale o una guardia del corpo o tutte e due le cose insieme. Per quel che riguarda Limonov, a prima vista appare come un uomo sceso a patti con la sua vita violenta, uno che si è lasciato alle spalle gli anni dissoluti descritti nel romanzo-manifesto Sono io, Edichka (“Il poeta russo preferisce i grandi negri”, diceva il sottotitolo dell’opera), e poi la guerra sulle montagne fra la Serbia e la Bosnia negli anni Novanta, l’impegno politico con il Partito nazional-bolscevico e i mesi di galera a Mosca e Saratov.
Della foga di quel tempo sembra che gli sia rimasto addosso soltanto un anello con il volto di Mussolini infilato all’anulare destro. Ma si tratta comunque di una impressione preliminare. «I cento anni della Rivoluzione sono semplicemente un fatto», dice a Tempi seduto nel suo studio. «Lo so, in Europa guardate sempre alla Russia in cerca di una rivoluzione, ma non aspettatevi che possa accadere di nuovo domani o fra un anno: non ci sono pitagorici fra noi. Magari succederà fra un secolo, magari non succederà mai più. Vedete, di quelli che erano qui nel 1991, probabilmente un terzo è già morto. Io da allora ho già scritto tre libri sui miei contemporanei morti: la gente se ne va e continua ad andarsene, e poi arrivano quelli nuovi. Non so che cosa penseranno i giovani della Rivoluzione. Probabilmente hanno una visione romantica della cosa, penseranno che la rivoluzione verrà e spazzerà via tutto quanto, cancellerà ingiustizie e disuguaglianze. E le cose, in effetti, stanno esattamente in quei termini. Ma soltanto all’inizio, perché poi le ingiustizie ritornano».
Limonov non è il solo che consideri poco importante l’anniversario del 1917. Il Centro Levada, l’istituto di ricerche sociali più importante del paese, ha fatto di recente una domanda interessante a 1.600 cittadini russi: se la Rivoluzione di Ottobre fosse cominciata di fronte ai vostri occhi, che cosa avreste fatto? Soltanto il 12 per cento dice che avrebbe sostenuto apertamente i bolscevichi; il 14 avrebbe lasciato subito il paese, il 33 starebbe cercando semplicemente di sopravvivere. Anche al Cremlino non sono affatto ansiosi di celebrare l’anniversario. Nessuna manifestazione pubblica, nessun discorso ufficiale, sembra quasi di vedere gli uomini di Putin seduti attorno a un tavolo che si ripetono a vicenda: sarebbe meglio fare finta che non sia successo.
Limonov parla in una stanza adibita a studio. Lungo una parete, sistemati in ordine, i libri di un autore solo, ovvero i suoi, tradotti in molte lingue. In Italia come pure in Francia e in altri paesi europei la fama dello scrittore è cresciuta assieme alle lotte contro il potere russo, i trionfi letterari si sono incrociati con le sconfitte politiche. Sfidare apertamente Putin ha avuto un certo ritorno in termini di popolarità. Questo è vero per l’Europa, meno per la Russia. Infatti Limonov non pensa che le idee politiche abbiano contribuito davvero al suo successo. «È soltanto una questione di talento, è sempre il talento che vince», dice passando l’anello di Mussolini da una mano all’altra. «Quando ho cominciato, la letteratura russa era divisa in due: da una parte gli scrittori sovietici e dall’altra i dissidenti. A me non restava altra soluzione che cercare di emergere fra quelle due correnti. Ma tutti conosciamo la verità: qui non mi vogliono, io non piaccio all’intelligentija e non sono mai piaciuto neppure al governo. Né adesso, né tanto meno prima. Io qui sono un corpo estraneo, e negli Stati Uniti, come sapete, i miei romanzi sono stati respinti da 35 case editrici diverse. Certo, nella mia letteratura la politica c’è, ma in maniera indiretta. È la politica della vita quotidiana, la politica della sopravvivenza: come si trova una ragazza, come si mettono insieme un po’ di soldi, e devo dire che questo alla gente è piaciuto».
Dissenso e “diritto di odiare”
Pochi giorni dopo il nostro incontro nella sua casa zarista al centro di Mosca la polizia ha fermato Limonov con un centinaio di manifestanti durante una protesta. La protesta era contro il capitalismo. In un video pubblicato su YouTube dal partito Fronte di Sinistra si vede Limonov circondato da un gruppo di poliziotti palestrati mentre un ufficiale con il berretto appoggiato sulla fronte dice loro: portatelo via, ma abbiatene cura. Sarebbe sbagliato pensare alla Russia come a un paese senza dissenso. L’opposizione esiste, non è quella che siede alla Duma, ma si incontra spesso nelle strade, nelle redazioni dei giornali e anche nei circoli ortodossi. Le frange più estreme di questi movimenti sono un pensiero costante per le autorità. Migliaia di persone protestano da mesi contro un film dal titolo Matilda che dovrebbe uscire nelle sale alla fine di ottobre. Nella pellicola il regista Aleksej Uchitel racconta le imprese amorose dell’ultimo zar, Nicola II, e della sua amante, la ballerina Matilda Kšesinskaja. Non ci sarebbe niente di male se lo zar non fosse un santo della Chiesa ortodossa: gruppi di cosacchi si sono riuniti in preghiera in decine di città per cancellare il peccato, e un’organizzazione con 350 attivisti che si fa chiamare “Stato cristiano” è ritenuta responsabile delle minacce denunciate da Uchitel negli ultimi mesi. Il portavoce della Chiesa russa ha preso ufficialmente le distanze dallo Stato cristiano, ma un protodiacono di nome Andrei Kuraev, che ha un blog molto seguito nel paese, ritiene che una parte della colpa appartenga proprio al patriarca Kirill: dopo la vicenda delle Pussy Riot, sostiene Kuraev, fra gli ortodossi è passata l’idea che esista “il diritto di odiare”.
Per Limonov il problema più vero del paese non è politico, bensì economico. «Della Russia di oggi mi fanno infuriare le disuguaglianze», dice piegato su una sedia di legno al centro della stanza che considera il suo studio. «Lo sapete, da noi ci sono quelli molto ricchi e quelli molto poveri. Le Nazioni Unite dicono che l’1 per cento della popolazione ha fra le mani il 70 per cento della ricchezza nazionale. È troppo. In India si parla del 49 per cento, in Cina del 27, negli Stati Uniti si fermano al 32 perché loro hanno davvero una classe media. Se volete saperlo è questo che non sopporto della Russia di oggi. È una cosa orribile. Ma in generale il paese sta meglio rispetto a qualche anno fa. La riunione con la Crimea ha sollevato il morale del popolo e anche il sostegno nei confronti del governo. Per il resto è tutto una merda. Nei desideri dei russi, la giustizia ha preso il posto della democrazia. Capite che cosa intendo? La giustizia, non la democrazia. La gente sa benissimo che nei tribunali non c’è vera giustizia. Ma là fuori nessuno muore di fame, quindi l’atteggiamento generale è positivo, più positivo rispetto, per esempio, a dieci anni fa».
Quegli arresti un po’ sospetti
Di recente due grossi casi giudiziari hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica. Il primo è quello contro Aleksej Ulyukaev, 61 anni, ex ministro dello Sviluppo economico, arrestato dalla polizia mentre riceveva una mazzetta da due milioni di dollari nell’ufficio del capo di Rosneft, Igor Sečin, uno degli uomini più potenti del paese. Petrolio, potere, un mucchio di soldi in una valigia e il sospetto fondato che Ulyukaev sia finito nel bel mezzo di un complotto. L’altro caso riguarda Kirill Serebrennikov, un regista che si trova ai domiciliari ormai da un mese, nell’attesa di un processo che dovrebbe cominciare alla fine di ottobre. Lo accusano di avere sottratto 900 mila euro al teatro che dirige, il Gogol’ di Mosca, soldi arrivati dal ministero della Cultura. Ma la vera ragione della disgrazia, secondo molti, starebbe nella sua costante sfida al conformismo nazionale. Già lo scorso luglio il Teatro Bolshoi ha cancellato lo spettacolo per ricordare Rudolf Nureyev nel quale avrebbe affrontato senza reticenze il tema dell’omosessualità. Al fianco di Serebrennikov, attori, artisti, scrittori e musicisti si sono schierati senza compromessi. «Chiunque lo conosca sa che non cederebbe mai alla tentazione di intascarsi i fondi ottenuti per uno spettacolo», ha scritto Andrei Plakhov, il critico teatrale del quotidiano Kommersant: «La sua ambizione è più forte di qualunque altro ragionamento. L’ultimo regista finito in carcere nel nostro paese è stato Vsevolod Mejerchol’d, nel 1939. A Serebrennikov non è stato concesso neppure il reato d’opinione».
Questo non sarà l’anniversario che Vladmir Putin vorrebbe celebrare, ma non significa che il presidente abbia smesso di cercare nel ventre della Russia i segni antichi della nazione. Un anno fa ha inaugurato di persona un enorme monumento al principe Vladimir, il sovrano che cristianizzò il popolo rus’ alla fine del Decimo secolo. Era un antenato di Ivan il Terribile, il suo regno ha coinciso con il passaggio della dinastia Rurijk da Kiev alla Moscova. Per una coincidenza il colosso scolpito nel piombo con le sue sembianze si trova a poca distanza dal mausoleo in cui riposa Lenin, l’uomo che ha distrutto i pilastri sui quali la monarchia ha poggiato per mille anni le ragioni della sua dottrina: ortodossia, autocrazia e spirito nazionale. La scorsa settimana, sempre nel centro di Mosca, autorità religiose e militari hanno tolto il velo che copriva una statua col fucile sbagliato dedicata a Mikhail Kalashnikov, l’ingegnere sovietico al quale si deve il disegno del fucile automatico più diffuso al mondo: quattro chili di acciaio fuso e legno, un simbolo finito sulle monete dell’Unione Sovietica e sulla bandiera del Mozambico, un affare ancora enorme per l’industria russa. In questa continua ricerca di modelli per lo spirito russo il cosmonauta Gagarin siede accanto al poeta Puškin, Solženicyn chiacchiera con Gorkij, gli zar sono diventati santi e Stalin torna fra i personaggi più popolari del periodo sovietico proprio dietro a Lenin.
«Questa tribù non morirà mai»
È come se la storia russa non avesse mai subìto uno scossone, come se non ci fosse mai stato uno scisma o un confine da superare. Soltanto la Rivoluzione, il passaggio violento dal sistema imperiale a quello socialista, è vissuto con estremo sospetto e forse anche un po’ di timore fra le mura del Cremlino: è come se Putin volesse tenere la grandeur dell’Unione Sovietica senza il trauma che portò alla sua venuta.
La strategia risponde a precise esigenze politiche. Bisogna evitare il conflitto, anche a costo di ignorare un anniversario. «Ma ci sono ancora tanti rivoluzionari in Russia, questa tribù non morirà mai», dice Limonov con tono rilassato alla fine della mattinata. «Io non mi sono mai definito rivoluzionario: sono stati i giornalisti a farlo, sono stati i media. Non sono neppure un anarchico, a meno che con il termine anarchico non intendiate una persona che dice la verità senza pensare alle conseguenze. Se è questo che pensate, allora devo ritenermi un anarchico. Ho combattuto tutte le volte che ho avuto la possibilità di farlo, ma ora sono troppo vecchio per correre ancora in montagna con una pistola. Non sono certo l’unico scrittore della categoria: pensate a Hemingway, oppure a Cervantes, oppure a Giulio Cesare e alle opere che ha scritto nelle campagne militari. È stato Giulio Cesare a cominciare questa tradizione. Credo che tutti, all’inizio della vita, avvertano la sensazione che moriranno giovani. Ce l’ho avuta anch’io, ma il destino ha voluto altro. In un certo senso posso dire di avere fallito. Per il resto, credo di essere riuscito a fare tutto quello che avevo in mente. Tranne prendere il potere. Per uno che è partito da un piccolo villaggio nei dintorni di Kharkov non è affatto male».
Foto Shutterstock e Ansa
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