
Riuscite, voi, a dare del tu a Cristo, a parlargli come a un uomo vivo?

Una bellissima domenica. Vecchi amici attorno a un tavolo, e attorno la campagna di maggio. Nemmeno una nuvola in cielo. Noi che parliamo dei figli, e delle elezioni. Il lambrusco che scorre e ci rende più ottimisti. Una domenica davvero bella, di quelle che ti rassicurano: siamo qui, siamo vivi, abbiamo degli amici cui vogliamo bene. E il sole già scotta. È estate, quasi.
Cos’è però questo nome che non dico, e che preme alle porte come un invitato dimenticato? Passati i cinquanta, quando i consueti obiettivi, raggiunti o no, non possono più bastare, la questione per me si fa radicale: Cristo, dunque, c’è lui o no, davvero, al fondo di ogni cosa e di noi? E allora perché fra noi cristiani parliamo sempre d’altro?
Come se poi la realtà fosse quella che tocchiamo, e quella sola. Vorrei chiedere, a voi che mi siete compagni da tanto: non sembra nelle nostre giornate solo un pensiero, Cristo? Riuscite, voi, a dargli del tu, a parlargli come a un uomo vivo, davvero?
Ma la domanda non supera la mia censura interiore. Sono pensieri che mi è stato insegnato, fin da bambina, a non dire. (Rilke: «E tutto cospira a tacere di noi, un po’ come si tace di un’onta, forse, come si tace di una speranza ineffabile»…). Eppure come questi campi di maggio attorno, e il rosso ardente dei primi papaveri, mi sembrano una silenziosa promessa, e essi stessi una domanda.
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