
La nuotatrice contro gli atleti trans: «Sbagliato e ingiusto che gareggino con noi»

Di primo acchito, verrebbe da dire che Riley Gaines è una donna con gli attributi. Visto però che il tema è delicato, e che il coraggio fortunatamente non fa distinzioni di sesso e chi non ce l’ha non se lo può dare, Riley Gaines è semplicemente una che ha coraggio per tre. 22 anni, nuotatrice alla University of Kentucky, nella quale ha conseguito qualche settimana fa una laurea. In un’ intervista a Oliver Brown, sul Daily Telegraph, ha raccontato la sua storia di atleta discriminata, sacrificata come tante sue colleghe sull’altare del woke, di un politicamente corretto che ormai da tempo sconfina nel fanatismo, specialmente in America.
«State davvero dando la coppa a un maschio?»
Le vicende sono abbastanza note: la Gaines si trovò, nel febbraio scorso a gareggiare ai campionati universitari contro Lia Thomas, l’atleta trans della University of Pennsylvania ammessa da poco alle gare femminili. Thomas aveva vinto i 500 stile libero e il giorno dopo Gaines se la trovò come avversaria nel 200, incredula. «Una roba da spezzare il cuore. Ti viene tolta una cosa [a cui tenevi] da una persona che fino all’anno prima non si sarebbe neanche qualificata per le finali, da uomo. Uno schiaffo».
Gaines e Thomas arrivarono quinte a pari merito, ma gli organizzatori decisero di dare a Thomas il relativo trofeo, assegnando a Gaines quello per il sesto posto, «così posate per la foto». «Dissi subito che era sbagliato – le sue parole a Brown – Chiesi ai dirigenti NCAA “ma state davvero dando la coppa a un maschio?”. Oggi voi fate un torto a una donna in una gara per donne. Thomas non disse una parola, non si offrì di fare cambio di trofei. Mi diede proprio l’impressione che non si rendesse conto di nulla, e di mancanza di rispetto verso le atlete».
«Qualcosa di sbagliato e ingiusto», dice Gaines
Giusto ricordare che Thomas ha completato il ciclo farmacologico necessario per il riconoscimento ufficiale come atleta al femminile. Con la cura, ha perso peso e forza fisica di base, risentendone rispetto ai tempi che aveva da atleta al maschile, dove era al numero 554 della classifica statunitense, una posizione irrisoria. Dire quindi che è un uomo che gareggia tra donne non è totalmente corretto, ma certamente, i suoi risultati e il pezzo del Telegraph lo sottolineano, porta con sé tutti i vantaggi del corredo cardiovascolare di un uomo, oltretutto spuntato dal nulla.
«In genere, da atleta di alto livello, sai sempre chi sono le tue rivali. Quando è venuto fuori per la prima volta che Lia Thomas in realtà era Will Thomas, per tre anni nuotatore della squadra di Pennsylvania, ho tirato un sospiro di sollievo. “Oh, ecco, è chiaro che non le verrà mai permesso di gareggiare con noi”. Poi, poco prima dei campionati, ci hanno fatto invece sapere che avrebbe partecipato. Eravamo tutte sconvolte. Alle mie colleghe e al nostro staff tecnico era chiaro che si trattasse di qualcosa di sbagliato e ingiusto». Ci sono state proteste e polemiche e a giugno la Federazione internazionale ha vietato la partecipazione di atleti trans alle manifestazioni di nuoto professionistico femminile, ad eccezione di chi possa dimostrare di non essere andato oltre la fase 2 della scala di Tanner relativa al sesso maschile o di non avere raggiunto la pubertà prima dei 12 anni.
Un clima intimidatorio verso chi protesta
Ma il problema non è solo nell’atto agonistico in sé: «Gli spogliatoi sono uno dei luoghi in cui ti senti a tuo agio a stare mezza svestita… è un posto in cui non dovresti sentirti vulnerabile. Ma nessuno ci aveva avvertito che Thomas ci sarebbe entrata. Per me è una follia assoluta. Sei lì tranquilla e all’improvviso cala il silenzio, perché entra questa persona nata maschio alta 1.90 che comincia a spogliarsi e tu ti senti completamente a disagio. Un’esperienza davvero bizzarra».
Quello che trapela dalle parole di Gaines è il clima intimidatorio e intollerante che ha circondato la vicenda, un classico del movimento woke, da Black Lives Matter in poi, e dei suoi sostenitori in giro per il mondo, generalmente Dem accecati dall’ideologia al punto da ribaltare la realtà e imporre alla maggioranza le pretese, non i diritti, di una minoranza. Che non deve mai essere irrisa o ghettizzata, anzi va rispettata, ma non può pretendere di soverchiare con le proprie visioni. Dopo l’episodio dello spogliatoio Kim Jones, madre di una nuotatrice, protestò, ricevendo come risposta dalla Ivy League, la lega che comprende università come Penn, l’invito a farsi vedere da uno psicologo. Ecco la discriminazione a rovescio contro cui Gaines si sta opponendo con enorme coraggio e con rischio personale.
Il ricatto psicologico delle università
Gaines vorrebbe fare la dentista, ma per il momento ritiene prioritaria e troppo importante la sua battaglia per salvare lo sport femminile. Battaglia che l’ha vista anche perdere il proprio profilo Twitter, con la bizzarra giustificazione dell’età inferiore ai 13 anni (eh?), guarda caso dopo uno scambio in cui le sue parti le aveva prese nientemeno che Caitlyn Jenner, ovvero l’ex Bruce Jenner, decatleta campione olimpico nel 1976, forse la persona trans più famosa del mondo, ferma sostenitrice dello sport femminile.
Altre non se la sono sentita, e il motivo è in queste tremende parole, che riflettono il clima di prepotenza e violenza psicologica praticato dai college: «Le università cercano di intimidire le ragazze», ha spiegato Gaines, «dicono loro che [se protestano] non verranno mai ammesse ai corsi specialistici, che non troveranno mai un lavoro. Vengono ricattate psicologicamente, si sentono dire che se un’atleta trans si toglie la vita la colpa sarà la loro. Ma io tiro avanti… perché non c’è nulla di sbagliato in quello che sostengo, né sul piano scientifico né su quello del buon senso».
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