
Rifta Masih, storia della bimba pakistana down arrestata per blasfemia
Stava giocando fuori dalla sua abitazione alle porte di Islamabad, nel villaggio di Mehrabadi, ignara del fatto che poche ore dopo la sua presenza sarebbe stata usata per scatenare il delirio che ha messo in fuga centinaia di famiglie cristiane (300 secondo la Ong Centre for Law and Justice), mentre festeggiavano a Ferragosto l’assunzione in cielo della Madonna. Il quotidiano pakistano The express Tribune ha raccontato che a scatenare l’ira della folla era stata la denuncia di alcuni vicini, che hanno accusato la piccola di blasfemia per aver strappato e bruciato alcune pagine del Noorani Qaida, manuale per imparare a leggere il Corano.
La bambina, Rifta Masih, cristiana di 11 anni, affetta da sindrome di Down, inizialmente era scampata all’arresto. Ma la folla impazzita, non ha solo attentato alla vita e ai beni di un intero quartiere messo in fuga, ha anche bloccato per ore la strada statale del Kashmir e circondando il commissariato. Così, il giorno successivo è scattato l’arresto. Nonostante l’assenza di prove certe e di testimoni oculari della vicenda. Tanto che la denuncia era partita da tale Muhammad Ummad che, pur non avendo assistito ai fatti, aveva scritto una dichiarazione in cui parlava di «dieci pagine del libro strappate e gettate in un cassonetto della spazzatura». A frenare l’arresto non è valso nemmeno il fatto che la piccola cristiana abbia solo 11 anni e che sia affetta da una malattia che, quantomeno, dovrebbe attenuare la responsabilità del presunto atto.
Per lei dunque potrebbe valere quello che da 26 anni è valso per migliaia di persone. Uccise o condannate all’ergastolo dalla legge sulla blasfemia, dopo aver scampato, come lei, il linciaggio della folla che nello stesso arco di tempo non ha risparmiato la vita a 30 persone. Secondo i dati ufficiali, infatti, tra il 1986 e il 2009 sono circa mille gli incriminati dalla legge sulla blasfemia in Pakistan. Ma potrebbero essere molti di più. Come fa ipotizzare anche questo ultimo caso riportato dalle cronache solo quattro giorni dopo l’accaduto e solo grazie all’intervento di alcune Ong a cui hanno risposto pochi esponenti governativi.
La Commissione asiatica per i diritti umani (Ahrc) ha sottolineato l’uso strumentale della norma per vendette personali. La Ong Christians in Pakistan ha addirittura messo in dubbio l’accaduto, parlando di accuse false e ricordando l’odio da parte degli islamici verso i cristiani del paese. A intervenire è stato anche Paul Bhatti, fratello di Shahbaz (ex ministro delle Minoranze) ucciso perché favorevole alla riforma della legge sulla blasfemia. Bhatti, ora consigliere del primo ministro per l’Armonia Nazionale, ha disposto un’assistenza legale per la piccola e ha domandato di indagare circa le pressioni esercitate sulla polizia dagli islamici. Pare che Bhatti abbia cercato contattati anche con i leader religiosi locali, i quali dopo la fine del Ramadan in corso dovrebbero giudicare le responsabilità della bambina. Insieme a Bhatti è intervenuto anche il sottosegretario di Stato per i Diritti Umani, Rubina Qaimkhawni, sottolineando che Rifta «è un’innocente minore, che potrebbe persino non avere profonda coscienza dei simboli della religione».
Nonostante ciò, aumentano le preoccupazioni data anche la mancanza di notizie sulla sorte della madre e della sorella di Rifta dal momento in cui sono state prese in consegna dagli agenti. Mentre Zabiullah, funzionario incaricato delle indagini, non riesce ad essere rintracciato da nessuna emittente informativa e la stazione di Polizia non lascia trapelare alcuna notizia. Il fatto poi, che Asia Bibi, dopo due anni di appelli sia ancora in carcere accresce le paure di chi si batte per la protezione delle minoranze.
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