Riforma del terzo settore. «Chiudere al privato è un divieto assoluto che non può funzionare»

Di Matteo Rigamonti
06 Dicembre 2014
«Usiamo la leva fiscale per tutelare l'originalità del no profit italiano». Intervista a Giuseppe Guerini (Confcooperative)

Secondo l’Espresso, la riforma del terzo settore allo studio del Parlamento potrebbe «scatenare uno scontro interno in nome del business». A preoccupare è soprattutto la «novità più consistente: la trasformazione in “impresa sociale”» delle onlus. «Che significa la caduta di alcuni paletti finora rigidi» come, per esempio, «il divieto di distribuire profitti e la democrazia interna, assicurata dal principio “una testa, un voto”». Ma è proprio così? Lo abbiamo chiesto a Giuseppe Guerini, portavoce dell’Alleanza delle cooperative sociali e presidente di Federsolidarietà Confcooperative.

Guerini, è vero che, come scrive l’Espresso, la riforma del terzo settore può «scatenare uno scontro interno nel nome del business»?
Si tratta di un titolo volutamente ad effetto, ma c’è del vero. È innegabile, infatti, che sulla riforma del terzo settore si stiano confrontando posizioni molto diverse tra di loro dal punto di vista culturale. Non dimentichiamo, però, che stiamo parlando di una dimensione che non riguarda soltanto le onlus, ma la nozione stessa di impresa sociale, di economia sociale, e su questo c’è un confronto in atto.

Cosa cambierà con la riforma?
È auspicabile che la riforma metta qualche paletto rispetto a un aspetto troppo spesso sottovalutato. Mi riferisco a tutte quelle realtà che si travestono da onlus, mascherando in realtà una dimensione prevalentemente commerciale, al fine di godere di spazi occulti di libertà per muovere cifre importanti di denaro che altrimenti non potrebbero.

Per esempio?
Secondo un censimento Istat, l’anno scorso il 67 per cento delle organizzazioni no profit non aveva nemmeno personalità giuridica. Significa che non sono tenute a presentare né bilanci né fatture, ma semplici ricevute di pagamento. Ora, uno può anche avere una società sportiva o un’associazione culturale o una scuola di canto; insomma, attività il cui merito sociale è evidentemente sotto gli occhi di tutti. Ma è giusto che questi meriti siano riconosciuti attraverso fiscalità di favore, e non, invece, tollerando escamotage che, in realtà, potrebbero semplicemente servire a fuggire controlli.

Il no profit, dunque, deve tenere le porte chiuse al privato?
Non sto dicendo questo. I divieti assoluti sono il modo migliore per far nascere opere truffaldine. Piuttosto, si tratta di lasciarsi ispirare da chiunque, anche dal modello anglosassone del cosiddetto low profit, in cui vige un approccio molto diverso dal nostro; a patto, però, che la peculiarità del nostro modello sia salvaguardata e difesa. La nostra tradizione, infatti, è quella di opere fortemente radicate sul territorio, altamente partecipative per i soci, ma senza alcun tipo di fine lucrativo.

La riforma del terzo settore va in questa direzione?
Personalmente sono molto fiducioso, a patto, però, che si eviti di svuotarla di contenuto limitandosi a una riforma del servizio civile o poco più e posticipando continuamente la soluzione dei problemi aperti.

È giusto invogliare la finanza a investire sul no profit?
Potrebbe essere una cosa positiva, ma non è questa la priorità. Anche perché l’accesso al credito del terzo settore e delle cooperative sociali è già piuttosto buono. Certamente migliore di tanti altri segmenti dell’economia reale e comunque migliorabile. Ma è notevole la capacità di restituire i finanziamenti ricevuti. Motivo per cui, forse, il no profit è diventato attraente anche per un certo mondo della finanza. Non per questo dobbiamo farci affascinare troppo dai modelli nati in ambienti e culture diversi dai nostri. Una cosa, invece, che si potrebbe fare, è agevolare in qualche modo un settore come quello dell’housing sociale, in cui la necessità di attrarre capitali è per natura diversa da quella di altre tipologie di opere no profit.

I soci possono partecipare agli utili?
Se si tratta soltanto di una quota è ammissibile, a condizione, però, che ciò non abbia finalità lucrative. La priorità deve essere sempre quella di remunerare gli investimenti. Come avviene, per esempio, con il meccanismo delle cooperative a mutualità prevalente.

Ci sono troppe tasse sul no profit?
Se si vuole riconoscere il merito e la funzione sociale che il terzo settore svolge, è auspicabile l’adozione di meccanismi premiali. E in questo senso la leva fiscale è molto importante. Nel caso dell’inasprimento del prelievo sulle fondazioni, credo che abbia pesato soprattutto il convincimento che laddove ci sono le banche, è automaticamente legittimo tassare. Ma le fondazioni, anche quelle di origine bancaria, sono un’altra cosa.

Anche se a Bruxelles qualcuno poi si arrabbia, come è già successo per l’Imu sul no profit?
Il punto è essere in grado di dimostrare alle istituzioni europee la peculiarità delle nostre opere no profit. Perché l’importante è che il terzo settore non distorca in alcun modo la concorrenza. E questo non avviene quando, per esempio, si tratta di una cooperativa che si occupa del reinserimento lavorativo di persone diversamente abili. Anzi, abbatte un costo per lo Stato. Allora è giusto riservare un trattamento fiscale differente rispetto  a quelle situazioni in cui la produttività è maggiore. Perché, come ricordava don Milani, non c’è ingiustizia più grande che fare parti uguali tra diseguali.

@rigaz1

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