Ricostruire un Libano “neutrale”

Di Rodolfo Casadei
17 Settembre 2020
Il Covid e l’esplosione a Beirut hanno dato il colpo di grazia a un paese già in crisi. Il dramma può spingere l’Iran a ridimensionare la sua influenza e Hezbollah al disarmo

Articolo tratto dal numero di settembre 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

La salvezza del Libano potrebbe trovarsi nelle sue disgrazie. Prima del tragico incidente del 4 agosto scorso – quasi certamente dovuto a incuria umana – dell’esplosione di 2.750 tonnellate d’ammonio depositate nel porto di Beirut che ha causato 190 morti, 6 mila feriti e danni materiali per 4,6 miliardi di dollari, prima del Covid-19 e prima della bancarotta del marzo scorso, quando la Banca nazionale ha annunciato che il Libano non era in grado di onorare le scadenze del suo debito, il paese era avviato verso il baratro di uno dei tre possibili tragici esiti che il patriarca maronita Béchara Raï ha enumerato in un memorandum da lui reso pubblico il 17 agosto scorso: «O una comunità confessionale dominerà le altre con la forza attraverso l’uso delle armi, esercitando poi l’egemonia sullo Stato e minacciando i vicini e gli equilibri regionali; o il Libano resterà uno stato fallito, privo di legittimità, peso e stabilità; o altri potrebbero decidere il destino del Libano rimettendo in causa la sua integrità territoriale e la sua sovranità nazionale nel contesto dei cambiamenti radicali che continuano a modellare il presente e il futuro dell’intera regione».

Le intimorite reazioni dei capi fazione libanesi, che sono o sono stati in gran parte ai vertici delle istituzioni, di fronte agli ultimatum formulati dal presidente francese Emmanuel Macron nel corso della sua doppia visita in terra libanese in meno di un mese (6 agosto e 31 agosto/1 settembre) sono un segnale inequivocabile che qualcosa cambierà davvero nel paese dei Cedri, e cambierà nella direzione che le autorità morali e i movimenti civili del paese auspicano inutilmente da anni. Stavolta la congiuntura astrale gioca a favore di chi, come il patriarca Rai e le associazioni della società civile, auspica per il paese una vera “neutralità attiva” a livello internazionale e una democrazia post-confessionale all’interno. E la congiuntura consiste in tre elementi convergenti: l’interesse dei paesi occidentali e della Francia in prima fila a frenare l’espansione dell’influenza della Turchia sulla sponda sud del Mediterraneo; l’interesse di paesi occidentali, paesi arabi sunniti ed Israele a ridimensionare l’influenza politico-militare del partito sciita Hezbollah per arginare l’espansione dell’influenza iraniana nella regione; l’impossibilità per i capi fazione libanesi di ricorrere alle consuete tattiche dilatorie, ai ricatti alla comunità internazionale e al sostegno dei propri sponsor stranieri dopo il crollo della principale fonte della loro potenza: l’accesso illimitato al credito presso le banche libanesi.

Il collasso finanziario del settore bancario ha reso i capi fazione ricattabili: Macron ha pronta una lista di nomi di notabili cristiani, sunniti e sciiti ai quali verrebbero imposte sanzioni economico-finanziarie, concordate con gli Stati Uniti e i paesi della Ue, che comporterebbero il congelamento dei loro beni mobili e immobili all’estero se non permetteranno la nascita di un governo tecnico («governo di missione» è la formula prescelta) che negozi seriamente un accordo col Fmi e attui le riforme economiche e istituzionali che da molto tempo sono in agenda e che sono improcrastinabili nel momento in cui il paese ai 10 miliardi di dollari richiesti per superare la crisi del debito dovrà aggiungerne altri 8-9 per coprire i danni dell’esplosione del 4 agosto e i mancati guadagni delle attività portuali sospese a causa dell’inagibilità dello scalo marittimo di Beirut.

Cristiani e musulmani

La fase storica iniziata con gli accordi di Taif del 1989 che misero fine qualche mese dopo alla guerra civile che imperversava dal 1975 sembra arrivata al capolinea. Quegli accordi, che modificarono sia la Costituzione che il Patto nazionale ufficioso che dal 1943 reggeva il paese, ridistribuivano il potere all’interno del Libano indebolendo la componente cristiana a vantaggio di quella musulmana: il primo ministro musulmano sunnita veniva ad avere più poteri del capo dello Stato cristiano maronita, e la ripartizione dei parlamentari e dei ministri passava da un rapporto di 54 a 46 a favore dei cristiani alla parità 50-50. Ma, come scrive il patriarca Rai nel suo memorandum per la neutralità attiva del Libano, «tutti questi compromessi politici e costituzionali riuscirono ad arrestare la guerra, ma non il conflitto, che ha conosciuto un’escalation dopo ogni compromesso, creando una situazione che conteneva in sé i semi di futuri conflitti. Il Libano è così diventato un paese dove i gruppi religiosi e comunitari lottano per avere più potere. L’appropriazione del potere da parte dei vari gruppi religiosi e politici ha fatto dell’interferenza esterna negli affari interni del Libano un fattore necessario per la sopravvivenza di questi gruppi. Di conseguenza il Libano è diventato un terreno per le “guerre per procura” di altri».

Le dichiarazioni surreali di Aoun

Il ruolo dei padrini stranieri nelle rivalità intralibanesi e il coinvolgimento dei libanesi in guerre per procura, sul suolo nazionale o nella confinante Siria, riguarda principalmente i leader politici musulmani, che hanno come referente l’Arabia Saudita nel caso dei sunniti (ma con incidenti di non poco conto come quello che ha visto coinvolto Saad Hariri, ex primo ministro che nel novembre 2017 fu sequestrato per tre settimane a Riyadh per ordine del principe Mohamed Bin Salman) e l’Iran e la Siria nel caso degli sciiti e degli alawiti. L’appoggio dell’Occidente e dell’ex potenza coloniale che è la Francia ai cristiani libanesi procede a corrente molto alternata, con vari presidenti francesi che hanno preferito instaurare rapporti preferenziali coi politici sunniti. Ma tutte le élite politiche libanesi di ogni confessione, costituite da clan familiari, hanno interpretato gli accordi di Taif come una via libera al patrimonialismo, cioè all’appropriazione delle istituzioni e delle infrastrutture dello Stato (banche, elettricità, telecomunicazioni, ecc.) da parte di esponenti del proprio partito o del proprio parentado.

Suonano surreali le recenti dichiarazioni di Michel Aoun, l’85enne capo dello Stato che da primo ministro alla fine degli anni Ottanta combatté, lui ex capo di Stato maggiore dell’esercito nazionale, una sfortunata crociata per restaurare la sovranità del Libano occupato da eserciti stranieri, rilasciate a Paris-Match: «Il Libano soffre di una corruzione endemica. C’è una classe politica che protegge i corruttori e nasconde le loro pratiche, perché ne trae profitto in modo diretto. È molto difficile rompere questa alleanza solida e ben radicata perché essa oltrepassa le linee di divisione politiche per ricongiungersi sugli interessi finanziari. Sì, è difficile venirne a capo, ma sono determinato a continuare la lotta per disarticolare questo cartello mafioso. Ho tentato di farlo durante i quattro anni del mio mandato, ma confesso di non esserci riuscito perché molti occupano posti importanti nello Stato». La dichiarazione è surreale perché Aoun è parte, da quando è rientrato dall’esilio parigino nel 2005, della classe dirigente corrotta che denuncia; lui personalmente forse ha le mani pulite, ma non gli uomini del suo partito e del suo circolo familiare.

Perdite per 49 miliardi di dollari

Negli anni Sessanta il Libano era noto come la “Svizzera del Medio Oriente” per le sue banche che gestivano ingenti capitali provenienti da tutto il mondo in un regime di paradiso fiscale. Anche nell’ultimo ventennio le banche libanesi hanno continuato a fare profitti fra i più alti del mondo, tanto che i servizi finanziari rappresentano il 4,5 per cento del Pil nazionale. Ma il modo in cui li hanno realizzati è ben poco ortodosso, ed è quello che ha condotto al default del debito libanese nel marzo scorso e a perdite per 49 miliardi di dollari (pari al 91 per cento del Pil nazionale) da parte della Banca del Libano (la Banca centrale) secondo il Fmi e anche secondo il vecchio governo presieduto da Hassan Diab.

Come ha scritto il Financial Times, «la crisi fiscale, economica e monetaria deriva da un sistema finanziario non ortodosso dove il settore bancario ha guadagnato grazie agli alti tassi di interesse praticati sui prestiti al governo, e usato i depositi di dollari dall’estero per aiutare a finanziare sproporzionate fatture per importazioni e servizio del debito pubblico». Le finanze per i prestiti al governo arrivavano alle banche in gran parte dalla Banca centrale, che così ha alimentato un sistema nel quale le banche si arricchivano prestando denaro al governo, poi i leader politici passavano alla cassa o usufruendo di linee di credito illimitate, o perché erano azionisti di quelle stesse banche. Nel frattempo il Libano diventava il paese coi servizi di telecomunicazione fra i più cari del mondo (con le concessioni spartite fra i partiti politici), con una società elettrica fra le più inefficienti, che non è mai riuscita a garantire il servizio a tutto il territorio e oggi nemmeno nella capitale, la cui inefficienza è uguagliata solo da quella della gestione dei rifiuti, che da tempo vengono bruciati all’aria aperta in assenza di discariche e di termovalorizzatori. E diventava pure un paese dove il tasso di disoccupazione ha toccato il 35 per cento, quello di povertà relativa il 50 per cento, l’inflazione tendenziale annua di quest’anno sta al 112 per cento e la moneta ha perso il 70 per cento del suo valore.

Cosa ci rimette Hezbollah

I capi fazione tradizionali – gli Hariri, i Nabih Berri, gli Aoun e i Gemayel – si trovano oggi nel punto più basso della loro parabola politica, ma Hezbollah? Il partito sciita filo-iraniano si finanzia da sempre attraverso canali che poco hanno a che vedere col sistema bancario libanese – dunque è poco ricattabile – e ha molto da perdere da un rafforzamento delle istituzioni statali e dalla creazione di un governo forte. L’approdo alla “neutralità attiva” preconizzata dal patriarca Rai e dall’establishment francese sfocerebbe inevitabilmente nel disarmo della sua ala militare: nonostante 1.700 caduti nella guerra civile siriana, Hezbollah dispone di 25 mila combattenti e di un deposito di missili iraniani enorme, probabilmente superiore alle 100 mila unità. Gli sciiti fedeli ad Hassan Nasrallah potrebbero far deragliare ogni tentativo di restaurare Stato di diritto e buongoverno in Libano, anche se a un prezzo altissimo: un colpo di mano di Hezbollah provocherebbe certamente un intervento militare di Israele che avrebbe la copertura sia dell’Occidente che dei paesi arabi sunniti. Il percorso scelto da Macron per risolvere il rebus potrebbe non funzionare, ma è saggio e prudente in quanto allontana l’ipotesi di una nuova guerra civile internazionalizzata sul suolo libanese. A Hezbollah non viene chiesto di rinunciare alle sue armi, ma di non ostacolare la rinascita istituzionale del Libano, condizione di una ripresa economica di cui anche la popolazione sciita (30-31 per cento del totale) ha estremo bisogno. Evidentemente le cancellerie europee contano sul fatto che l’Iran sotto sanzioni economiche non potrà a lungo sostenere Hezbollah, come pure gli uomini di affari libanesi tradizionali finanziatori del movimento, colpiti dalla profondissima crisi economica del paese, e che cambiamenti fondamentali a Teheran porteranno anche alla cessazione delle forniture di armi. A quel punto il partito sciita sarà sospinto dalle realtà di fatto ad integrarsi in un sistema politico libanese rinnovato. Forse Nasrallah pensa semplicemente che oggi bisogna piegarsi come un giunco, in attesa che passi la tempesta, ma sta di fatto che il nuovo primo ministro incaricato, il sunnita Mustafa Adib, ha avuto il consenso di tutte le parti (tranne le Forze Libanesi) ad assumere il compito di formare un governo. Sul suo nome si sono trovati d’accordo Hezbollah e Macron, gli aounisti e i sunniti di Saad Hariri. Il presidente francese ha promesso una conferenza internazionale a ottobre a Parigi per coordinare gli aiuti al paese. Ma per arrivare a tale traguardo i libanesi devono nel frattempo autorizzare l’audit internazionale della Banca del Libano (sarebbe il primo della sua storia) e formare il nuovo governo dei tecnici. Per costituire il precedente esecutivo ci vollero nove mesi. Una tempistica del genere non è più permessa.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

Non perdere Tempi

Compila questo modulo per ricevere tutte le principali novità di Tempi e tempi.it direttamente e gratuitamente nella tua casella email

    Cliccando sul pulsante accetti la nostra privacy policy.
    Non inviamo spam e potrai disiscriverti in qualunque momento.

    Articoli correlati

    0 commenti

    Non ci sono ancora commenti.