
Resurrezione è missione. Andare fino alle estreme periferie del mondo, secondo un gruppo di liceali

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Riportiamo qui di seguito il capitolo “Missione” tratto dal volumetto Appunti di metodo cristiano edito da Gioventù Studentesca e dedicato «Al Papa dell’Ecclesiam Suam come espressione del meditato e fedele tentativo dei suoi studenti di Milano». Il volumetto reca in incipit il “Nihil obstat quominus imprimatur” del censore ecclesiastico della Curia di Milano, sacerdote “Carolus Figini” e la data del “visto si stampi”: 19 settembre 1964. I neretti sono degli autori.
La missione. Il mistero di Dio coinvolge l’intero universo e la sua comunione urge a una unità imprevedibile all’umana ragione. «Tutto è vostro, voi di Cristo, Cristo di Dio». Gesù Cristo è stato mandato per «riassumere tutto» in sé e perciò siamo ormai sicuri di essere tutti una cosa sola: «Non c’è più schiavo né libero, greco o barbaro, uomo o donna; tutti siamo una sola cosa in Gesù Cristo» (san Paolo). Ma nelle storia questa verità non è ancora totalmete espressa e realizzata. Per questo ognuno che partecipi alla «comunione» della Chiesa partecipa anche della «missione» di Cristo. La tensione ad abbracciare tutto il mondo è in proporzione esatta con la verità della «comunione» con Cristo e la Chiesa, e perciò del proprio cristianesimo. Così la presenza di quella tensione segna la verità o intensità della «comunione» nell’ambito della comunità cristiana.
La forza missionaria della Chiesa è innanzitutto nella potenza della sua unità e del fascino che ne fa sentire all’intorno. Il suo slancio «a testimoniare ai confini del mondo» viene molto più dall’interno che da una necessità o da un appello esteriore. È certo venuta l’ora di capire che se non si vive in questa dimensione missionaria chi rischia di perdersi sono innanzitutto i cristiani, prima di parlare della dannazione degli «infedeli»: «se in Tiro e in Sidone fossero stati fatti i miracoli compiuti in mezzo a voi, avrebbero già fatto da molto tempo penitenza in cenere e in cilicio» (Mt XI, 21).
In ogni caso nella misura in cui una persona o una comunità cristiana non sono aperte alla comunione viva con gli altri cristiani, e, attraverso questa, con tutti gli uomini, si privano anche della possibilità di realizzare la propria personalità, di essere pienamente e autenticamente «cattoliche»; si impoveriscono e riflettono una immagine meschina dell’«insondabile ricchezza» del mistero di Dio. Ma occorre insistere che l’universalità non è altro che lo spazio cui è destinata quella comunione che è l’essenza del cristianesimo e che si genera nell’individuo attraverso la sua partecipazione alla comunità della Chiesa: l’universalità è il dilatarsi della comunione fra noi. Per «andare in missione» non si tratta di insistere in primo luogo sul fatto che in un determinato ambiente ci sono dei bisogni (ignoranza, miseria etc.); si tratta invece di farsi interamente partecipi della comunità cristiana del luogo, e perciò condividerne aspirazioni e necessità.
In questo caso, se cioè si apparirà davvero in «comunione», incorporati vitalmente nella comunità locale, allora l’essere umanamente degli «stranieri» non farà che risaltare meglio l’universalità del cristianesimo e la forza della Carità, la quale crea un vincolo di totale unità fra persone che mentalità diverse e sentimenti nazionalistici terrebbero ordinariamente divise e lontane. È da osservare che questa comunione missionaria è anche condizione perché ci sia un arricchimento per le comunità di origine, per le basi di partenza di coloro che «vanno in missione». Il loro allontanamento sarebbe solo una perdita e un impoverimento, e non un arricchimento, se non mettesse in contatto con la vita di altre membra della Chiesa, se non fosse principio di uno scambio. È un grave sintomo della perdita del senso del cristianesimo come «comunione» quello di sentire tante persone – anche responsabili – ritenere una perdita di energie il «mandare» taluni in altri luoghi. Non sembra conforme a un ben inteso senso cristiano il dire: «C’è bisogno qui, perché andare là?».
La Missione è il modo originale di dialogo dei cristiani. Quel che è definitivo non sono le differenze ma l’unità. Già ora è possibile costruire passo passo l’unità entrando in dialogo con gli altri, con ognuno, nella speranza che cambi: rispettare le differenze non va confuso con l’assenza di speranza che si possa arrivare all’unità con l’altro, che l’altro possa vivere la nostra vita, che a ognuno si riveli la vita nuova. La proposta di unità deve essere instancabile quanto paziente nella devozione con cui si aderisce alla personalità dell’altro. La storia della Chiesa è storia della costruzione dell’unità, fatta di capacità di valorizzazione del positivo, di dialogo. Basti pensare all’incontro fra il cristianesimo e le varie civiltà, alla ricchezza e alla suggestività delle forme liturgiche.
Tutto è pronto per essere assunto nell’ambito della Chiesa. Così ha scritto un ragazzo che la sua comunità ha mandato in Brasile: «Sento bisogno di Chiesa esplicita, non mi basta pensare alla Comunione dei Santi, o meglio rischia di diventare un pensiero fantasma di fronte al mare di gente che incontro per le strade ogni giorno. Se la storia non è una farsa, questa realtà reclama la sua espressione di Chiesa, la sua maturità storica di Chiesa». L’affermazione finale può essere solo il desiderio di vedere la Chiesa espressa, l’unità costruita che si muove nella storia.
Tale desiderio attivo, perciò la «missione», inizia con la stessa vita della comunità cristiana nel suo ambiente. Il dialogo instancabile con i compagni nasce dalla certezza iniziale di un comune destino che ci unisce e dal desiderio quindi di esprimere visibilmente l’unità vera nell’ambiente. Ci vorrà certo pazienza, perché questa evidenza sarà solo alla fine. Ma dobbiamo ripetere con tutti il cammino verso l’unità perché sappiamo che anche l’altro è chiamato a partecipare a questo disegno. E il dialogo si allargherà dal proprio ambiente a un altro e poi a un alro ancora, in un cerchio di interesse sempre più vasto, verso uno spazio di comunione e un ambito di carità sempre più grande: così dalla propria scuola a tutto il mondo studentesco, dal proprio posto di lavoro a tutto il mondo del lavoro, dalla città alla periferia, alla campagna, dalla propria regione all’altra più lontana, dalla propria nazione alle altre.
Ma l’adeguato ambiente della nostra presenza è il mondo. Se la «missione» inizia con l’ambiente più vicino, la sua tensione è universale: l’unità non è autentica se non è aperta a tutti. Scopo della missione è l’unità totale. Non esiste motivo per escludere qualcuno o qualcosa: scoprire l’altro vuol dire, all’origine, scoprire tutti gli altri. «Mi son fatto tutto a tutti» (san Paolo). Per questo in ogni comunità cristiana di autentico spirito ci sono sempre alcuni – almeno – che scelgono di ripetere il gesto di Incarnazione di Dio in maniera unica ed esemplare, si assumono il sacrificio di rinascere in un altro ambito: soprattutto attraverso questi amici continua la storia di unità della Chiesa. Con loro tutta la comunità si muove nella prospettiva dell’unità: definitivamente, perché la loro presenza nel paese lontano è una realtà. Quel che avviene nel paese lontano è, per chi è rimasto nella comunità di origine, profezia di unità. E coloro che sono andati vivono dentro di loro tale profezia: «Siamo diventati miracolo a noi stessi», hanno scritto alcuni. Seguire il cammino che essi ci indicano significa lasciare che tale unità nasca dentro di noi; che la nostra mentalità e i nostri interessi si identifichino con quelli della Chiesa «Cattolica».
Il dialogo
Strumento della convivenza con tutta la realtà umana fatta da Dio è il dialogo. Perciò il dialogo è lo strumento della missione. Se noi fossimo totalmente tagliati fuori dal mondo, dagli altri, e un uomo fosse solo, assolutamente solo, non troverebbe novità alcuna. La novità viene sempre dall’incontro con l’altro; è la regola con cui è nata la vita: noi esistiamo perché altri ci hanno dato la vita. Un seme isolato non cresce; ma messo in condizioni di essere sollecitato da altro, allora si sprigiona. L’«altro» è essenziale perché la mia esistenza si sviluppi, perché quello che io sono sia dinamismo e vita. Dialogo è questo rapporto con l’«altro», chiunque sia o comunque. Che cosa l’altro porta? Porta certamente sempre una sottolineatura di interesse che come tale è parziale, ma che nel complesso degli ordinati rapporti aiuta a concretare una maturità unitaria, una compiutezza. Ognuno di noi, proprio perché è un tipo con un determinato temperamento, è portato a sottolineare talune cose: il contatto con gli altri lo richiama ad altre cose o ad altri aspetti della stessa cosa, così il dialogo è funzione di quegli orizzonti di universalità e di totalità cui l’uomo è destinato. Pensiamo dunque quale importante funzione della cattolicità della Chiesa sia il dialogo.
L’apertura senza limite, che è propria del dialogo come fattore evolutivo della persona e creativo di una società nuova, ha una gravissima necessità: non è mai vero dialogo se non in quanto io porto coscienza di me. È dialogo cioè, se viene vissuto come paragone tra la proposta dell’altro e la coscienza della proposta che rappresento io, che sono io: non è dialogo, cioè, se non nella misura della mia maturità nella coscienza di me. Per questo se la «crisi», nel senso di impegno per un vaglio della propria tradizione, non precede logicamente il dialogo con l’altro – in quella misura io resto bloccato dall’influsso dell’altro, oppure l’altro che respingo provoca un irrigidimento irrazionale nella mia posizione. Quindi è vero che il dialogo implica un’apertura verso l’altro, chiunque sia, perché chiunque testimonia o un interesse o un aspetto che si sarebbe messo da parte e perciò chiunque provoca a un paragone sempre più completo, – ma il dialogo implica anche una maturità di me, una coscienza critica di quello che sono.
Se non si tiene presente questo, sorge un pericolo grande: confondere il dialogo con il compromesso. Partire da ciò che si ha in comune con l’altro non significa infatti dire necessariamente la stessa cosa, pur usando le stesse parole: la giustizia dell’altro non è la giustizia del cristiano, la libertà dell’altro non è la libertà del cristiano, l’educazione nella concezione dell’altro non è l’educazione come la concepisce la Chiesa. C’è per usare una parola della filosofia scolastica, una «forma» diversa nelle parole che usiamo, cioè una forma diversa nel nostro modo di percepire, di sentire, di affrontare le cose. Ciò che abbiamo in comune con l’altro non è tanto da ricercare nella sua ideologia, quanto in quella struttura nativa, in quelle esigenze umane, in quei criteri originari per cui egli è uomo come noi. Apertura di dialogo significa perciò sapere partire da ciò cui l’ideologia dell’altro o il nostro cristianesimo fanno proposta di soluzione, perché fra ideologie diverse ciò che è in comune è proprio l’umanità degli uomini che portano quelle ideologie come vessilli di speranza o di risposta.
Foto Ansa
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4 commenti
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Ma perché poveracci e in malafede? Non sono appunti? Tanto meglio, non vedo dove sia la malafede…
Ma Livio, credi davvero che qualcuno a «Tempi» conosca don Giussani, e abbia addirittura letto le pagine da 185 a 195 di “Il cammino al vero è un’esperienza” (edizione Rizzoli)?
Questi sono i dei poveracci…
Poveracci e in malafede, purtroppo.
Ma quali liceali???
Questo è don Giussani in persona.