
Resistere, resistere, resistere all’onda giustizialista

Articolo tratto dal numero di marzo 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Può apparire paradossale, ma forse un argine al giustizialismo in cui sta precipitando il paese – tra un governo che punta ad abolire la prescrizione dei reati e il principale partito della maggioranza che sogna «uno Stato che punisce i furbi» (Luigi Di Maio, ministro degli Esteri), crogiolandosi nell’illusione che «gli innocenti non finiscono in carcere» (Alfonso Bonafede, ministro della Giustizia, lo stesso della prescrizione), e però dimenticando che una bella fetta della magistratura non vede in giro innocenti ma solo «colpevoli che l’hanno fatta franca» (Piercamillo Davigo, toga di Cassazione e membro del Csm) – ebbene, in un clima così, un argine contro la piena giustizialista potrebbe venire paradossalmente proprio dalla magistratura. Un gruppo di toghe, infatti, sta serrando i ranghi per dare battaglia al grillismo giudiziario dilagante, a cominciare dalle prossime elezioni dei vertici dell’Anm, previste per fine marzo. Tra questi c’è Loredana Miccichè, eletta consigiere al Csm nella stessa tornata e nella stessa “quota” di Davigo: togati con funzioni di legittimità, ossia di Cassazione.
Il congresso di Magistratura indipendente di sabato 8 febbraio è stato raccontato dai giornali come un «tentativo di riorganizzare un nuovo polo moderato delle toghe». Lo è?
Sì, esattamente.
Perché c’è bisogno di un polo moderato delle toghe?
Per aggregare tutti i magistrati che non si riconoscono in quella che io chiamo la sinistra giudiziaria. Loro però non amano essere chiamati così: si fanno chiamare “toghe progressiste”, come se noi non amassimo il progresso.
Che cosa non condividete con loro?
Il magistrato moderato crede nella propria soggezione alla legge, in primis nel suo tenore letterale, e comunque nella possibilità di interpretarla ma sempre rispettando la volontà del legislatore, qualunque essa sia. Il magistrato “progressista” invece predica la possibilità di indirizzare l’orientamento giurisprudenziale, quindi l’interpretazione della legge, in conformità con una certa visione della società. Una certa visione politica.
Adesso nella magistratura comandano le toghe progressiste?
Lo scandalo delle nomine al Consiglio superiore della magistratura (Csm), che a maggio ha travolto esponenti delle correnti moderate, ha fatto sì che la maggioranza dei magistrati al Csm passasse ai poli cosiddetti progressisti: Area (il cartello unitario di Magistratura democratica e Movimento per la giustizia, ndr) e Autonomia e indipendenza, la corrente di Davigo. Rispetto alla prima, la seconda esprime posizioni leggermente diverse, più orientate a un certo massimalismo, nel quale comunque un magistrato moderato non si riconosce. Perché il magistrato moderato non è un giustizialista, è un garantista.
Lo stesso è successo nell’Associazione nazionale magistrati (Anm), il cosiddetto sindacato delle toghe.
Dopo i fatti di maggio Magistratura indipendente (Mi), il gruppo in cui si riconoscono molti moderati, è finita fuori dalla giunta esecutiva e oggi anche l’Anm è governata da una maggioranza di Area e di Autonomia e indipendenza. Nella giunta c’è anche Unità per la Costituzione (Unicost), che si è spostata su posizioni più vicine a quelle di Area, quindi progressiste di sinistra, che moderate. Per questo una parte dei colleghi che aderivano a Unicost l’hanno lasciata per creare con Mi un nuovo polo moderato.
La stampa ha parlato di «ribaltone»: tra i magistrati il cambio delle maggioranze è stato avvertito come una forzatura? Una specie di golpe?
Nessun golpe. Anche noi di Mi abbiamo riconosciuto il disvalore delle condotte che hanno portato alle dimissioni dei consiglieri coinvolti. Si è appreso di accordi per le nomine concordati fuori dal Csm, per di più coinvolgendo politici che avevano interessi palesi perché implicati in indagini: simili comportamenti non possono essere approvati. Poi per la legge istitutiva del Csm (che ne stabilisce anche il sistema elettorale) ai due consiglieri dimissionari sono subentrati i primi fra i non eletti, e il caso ha voluto che fossero due colleghi della corrente di Davigo. Successivamente, le suppletive di ottobre hanno visto l’elezione di un membro di Mi, però l’altro eletto è di Autonomia e indipendenza, e così Area e la corrente di Davigo sono arrivate ad avere al Csm 10 consiglieri togati su 16.
Il predominio dei progressisti riflette l’attuale orientamento delle toghe?
A nostro avviso no. Le elezioni nel 2018 le avevano vinte i magistrati moderati, Mi e Unicost. La maggioranza attuale perciò non sembra rispecchiare la volontà dell’elettorato. Alle elezioni per l’Anm del 22 e 24 marzo si vedrà quali sono gli assetti reali. Comunque a dicembre, alle suppletive per l’ultimo membro dimissionario del Csm, Area ha vinto con 2.300 voti, ma Mi ha preso quasi 2.000 voti, mentre Unicost è uscita molto depotenziata (1.100 voti). Certo, la corrente di Davigo non ha presentato candidati, ma penso che quel risultato rispecchi ugualmente un movimento in atto.
Il cittadino comune queste cose non le capisce nemmeno se ci prova.
No, non le capisce: è impossibile per chi non le vive dall’interno.
Ma perché dovrebbe importargli di capire?
Perché in base all’esito delle elezioni dei magistrati si orientano le nomine. Esempio: la composizione della Corte di cassazione. È lì che si pronuncia l’ultima parola nei giudizi di legittimità; se in Cassazione prevale un determinato modo di fare giurisprudenza, questo può orientare anche le decisioni dei giudici di merito.
Quindi non è solo uno scontro di potere e carriere?
È in gioco il modo di esercitare la professione, fare giurisdizione e giurisprudenza. I moderati contestano l’idea che il dato normativo possa essere forzato fino a conformarlo alla propria visione politica.
Può fare un esempio?
Le polemiche sull’applicazione del decreto sicurezza. Per alcuni esiste solo il diritto inviolabile a emigrare e a vedersi riconosciuto lo status di rifugiato. Invece esiste anche un contesto: uno Stato ha la necessità del controllo delle presenze legali e illegali. Pensi poi ai temi della bioetica e al diritto di famiglia.
Altro tema divisivo: la riforma Bonafede. Voi avete promosso le misure per la digitalizzazione del processo.
Certamente. Ci accusano di non amare il progresso, invece da tempo siamo favorevoli all’introduzione dei sistemi informatici nella giustizia penale.
Ma siete contrarissimi al blocco della prescrizione dopo la sentenza di primo grado (solo in caso di condanna, recita il “lodo Conte bis”) e alla velocizzazione dei processi. La vera sostanza della riforma.
Per chi ha una visione garantista, il blocco della prescrizione è insostenibile. Non siamo assolutamente in grado di garantire una durata ragionevole del processo: senza la prescrizione l’imputato si troverebbe imputato a vita. E le corti di appello verrebbero intasate di processi che invece adesso, piaccia o no, si chiudono per decorrenza dei termini. Si può ragionare su una soluzione intermedia come la legge Orlando del 2017: sospensione della prescrizione per 18 mesi se si fa appello o ricorso in Cassazione, un deterrente alle impugnazioni smaccatamente infondate. Ma l’istituto della prescrizione non si può cancellare, corrisponde a finalità di garanzia.
Non basterebbe velocizzare i processi fissandone la durata per legge, come prevede il ddl Bonafede?
Su questo la magistratura è unanime: non si può pensare che un processo durerà due anni perché il legislatore scrive che due anni deve durare. Bisogna fare i conti con i carichi di lavoro insostenibili dei magistrati. Poi con i tecnicismi e le difficoltà dei processi, come l’obbligo di assicurarsi che le notificazioni arrivino a tutti, anche ai testimoni che non si riesce a rintracciare… Ma la cosa grave è che nel ddl, alla previsione apodittica del termine di durata massima del processo, è collegato il principio secondo cui l’organizzazione del processo è a carico del magistrato. Ove quindi il termine non sia rispettato, al magistrato spetta una sanzione disciplinare. Significa scaricare sulle toghe difetti strutturali che non possono essere addebitati a loro. È una riforma eccessivamente punitiva, oltre che inutile.
Ma esiste un modo di velocizzare i processi che non sia assumere un milione di magistrati?
Il problema della giustizia in Italia è che l’azione penale è obbligatoria, a differenza di altri paesi come Francia e Germania. Se ogni indagine deve essere portata fino alla fine, e se quando la notizia di reato è fondata, qualsiasi reato sia, bisogna fare comunque il processo, è ovvio che diventa impossibile celebrarli tutti in tempi celeri.
Via l’obbligatorietà dell’azione penale. Questa sì che sarebbe una riforma.
L’obbligatorietà dell’azione penale è un principio costituzionale ed è molto difficile scardinarlo. Però si può depenalizzare una serie di reati di basso allarme sociale che ingolfano i tribunali.
Per esempio?
La guida in stato di ebbrezza. Certo, può portare alla commissione di crimini più gravi come l’omicidio stradale, ma se l’ubriachezza è prevista come aggravante e continuiamo a punire l’omicidio, non c’è bisogno di sanzionare come reato la guida in stato di ebbrezza. Lei non ha idea delle migliaia di processi che si fanno ogni anno in Italia per questa fattispecie. Processi che arrivano in Cassazione, dove occupano ben cinque giudici. Si incarichi una commissione di analizzare le pendenze penali in ogni tribunale, quanto durano, quanto tempo richiedono al giudice, con lo scopo di arrivare a una seria riforma di depenalizzazione.
Foto Ansa
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