Resistere al totalitarismo soft. La lezione di Rod Dreher

Di Piero Vietti
02 Settembre 2021
A Milano con Alberto Mingardi per presentare "La resistenza dei cristiani", lo scrittore americano vede un futuro fosco per l'occidente, tra ideologia woke e repressione del pensiero. E fa suo l'appello di Solzenicyn
Lo scrittore americano Rod Dreher e il direttore dell'IBL, Alberto Mingardi
Lo scrittore americano Rod Dreher e il direttore dell'Ibl, Alberto Mingardi

In Italia per un tour promozionale del suo ultimo libro, La resistenza dei cristiani – Manuale per fedeli dissidenti, il giornalista e scrittore americano Rod Dreher ha parlato mercoledì sera a Milano in un dibattito al cinema Plinius organizzato da Tempi, Fondazione Tatarella, Fondazione De Gasperi e il suo editore italiano, Giubilei Regnani. Con lui Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni e docente universitario dello Iulm.

Il totalitarismo soft

Presentato da Tempi anche a Roma martedì scorso con il politologo Lorenzo Castellani, il saggio di Dreher in America ha venduto ben oltre le centomila copie e continua a fare discutere. Quella dell’autore de L’opzione Benedetto è un’accusa potente (e forse un po’ pessimista) a quello che lui chiama “Totalitarismo soft”, che negli Stati Uniti e in generale nei paesi anglosassoni sta plasmando la società, i rapporti tra le persone, le scuole e le università, gli interessi economici e la gestione del potere. Un totalitarismo che ha a che fare con il pensiero unico e il politicamente corretto, e che – questa l’ardita ma documentata tesi di Dreher – non è poi molto diverso dai totalitarismi che hanno ferito il Novecento. Certo non per i gulag e i campi di concentramento, le file per il pane o la polizia segreta, ma per le conseguenze sulla libertà delle persone.

«Nei suoi interventi – ha detto Rodolfo Casadei introducendolo – si trova molto di più di una critica della cultura e della società contemporanee. Obiettivamente, oggi i critici non mancano: i critici della globalizzazione, i critici del nichilismo, i critici della condizione post-moderna, i critici della prospettiva transumanista… Ci sono giornali, ci sono centri culturali, case editrici. Quello che spesso manca, quello di cui abbiamo disperatamente bisogno, sono soggetti capaci di indicare modalità concrete che permettano di conservare o di restaurare quelli che Pasolini chiamava “i vari modi di essere uomini”».

L’America woke e l’ex blocco sovietico

Lucido nella sua analisi del momento attuale, Dreher racconta che «alcuni anni fa ho iniziato a parlare con diverse persone emigrate negli Stati Uniti dai paesi dell’ex blocco sovietico scappate del comunismo. Mi dicevano che le cose che vedevano succedere nell’America woke, ricordavano loro molti aspetti delle società da cui erano fuggiti: persone spaventate di perdere il lavoro se avessero detto cosa pensavano davvero su certi temi, libri censurati perché non allineati a un certo tipo di pensiero dominante, media e industria dell’intrattenimento sempre più attivi nella propaganda woke».

Se è vero che una società autoritaria è caratterizzata dalla monopolizzazione del potere da parte di un singolo partito, da una politicizzazione di ogni aspetto della vita, e dalla pretesa obbedienza di tutti da parte del potere, secondo Dreher in America «stiamo vivendo l’inizio di quello che io chiamo totalitarismo morbido, dove i dissidenti non vengono brutalmente puniti e incarcerati, e l’ideologia dominante è motivata dalla compassione per le vittime».

Nelle grandi aziende, nelle scuole e nelle università, nei giornali, chi dissente ad esempio dalla propaganda Lgbtq e dalle campagne antirazziste è sempre meno tollerato. «È iniziato nelle università, si è diffuso attraverso i media e oggi controlla le grandi aziende, il diritto, la medicina, lo sport, le ong e anche diverse chiese». È una nuova religione che ha attecchito nella società individualista occidentale che ha perso la fede nelle istituzioni e nelle gerarchie e che rischia, azzarda lo scrittore americano, di degenerare grazie alla pervasività della tecnologia nelle nostre vite in quello che in Cina già succede con il credito sociale.

«Se tu critichi l’ideologia gender, l’antirazzismo e gli altri dogmi woke sarai messo ai margini della società». La dura analisi di Dreher ha una proposta di soluzione, che è quella del titolo originale del suo saggio: vivere senza menzogna. La citazione del famoso discorso di Solzenicyn serve a Dreher per indicare una via di resistenza, per cristiani e non, in un mondo che finirà per perseguitare i non allineati e in cui «la fede borghese di noi occidentali non basterà a salvarci».

“Vogliono fare l’uomo nuovo”

È «la riproposizione, nell’America e nell’Occidente di oggi, della missione ideologica di fare l’uomo nuovo», ha detto Alberto Mingardi, augurandosi che la “profezia” di Dreher sia sbagliata. Il punto cruciale, ha spiegato il direttore dell’Ibl, è che «l’orizzonte politico attuale, il mondo della politica dell’identità, è profondamente collettivista. Le dinamiche dell’appartenenza politica, oggi, coincidono con il vittimismo di massa. Noi apparteniamo a una certa categoria di “vittime”, e in quanto tali abbiamo diritto a un risarcimento. Non per un torto subito da noi in prima persona, ma per un torto subito dal gruppo al quale apparteniamo». Bisogna però anche ascoltare «le ragioni degli altri», avverte Mingardi, «esistono gruppi che hanno subìto grandi torti nella storia».

«Quando si vedono i guasti del politicamente corretto, e sono tanti, si finisce per non vedere che esso risponde anche a un’esigenza antica e reale: cioè migliorare un po’ le regole di convivenza, guardarsi con un po’ più di simpatia reciproca». Secondo Mingardi la tesi di Dreher è debole proprio sul termine scelto, «dover parlare di totalitarismo moderato forse significa che la categoria non è quella giusta». Tante “schedature” che i giganti tech fanno dei nostri dati «hanno effetti modesti sulle nostre vite», e poi «la complessità del diritto proprio a partire dagli Stati rende le aziende molto prudenti, quando si affaccia la possibilità di condividere quelle informazioni con lo Stato. Sarei un po’ più fiducioso nel diritto».

La responsabilità degli intellettuali

C’è poi il capitolo social network, dove Dreher secondo Mingardi ha ragione quando denuncia «un problema di omologazione ideologica delle classi dirigenti. Il problema più grosso è come i social influenzino, per le loro stesse dinamiche, il discorso pubblico. Il problema è la natura delle guerre culturali e qui credo che Dreher centri perfettamente il punto, sollevando il tema, mai abbastanza sottolineato, della responsabilità degli intellettuali. Nelle belle pagine che dedica ai Social justice warrior, Dreher sottolinea giustamente come sia sempre di più una convinzione presente nei ceti intellettuali che il linguaggio plasma la realtà dell’uomo».

«L’esistenza del sistema dipende dalla paura del popolo di opporsi a tali bugie. Ma l’opposizione attiva è costosa, in alcuni casi può arrivare a costare la vita. Allora Solzenicyn, che ne era ben consapevole e sapeva che il coraggio è risorsa quantomai scarsa nel cuore umano, faceva un invito più modesto ma più potente: “Il nostro modo di vivere dev’essere il seguente: Mai sostenere coscientemente le menzogne!“. Quello era un invito personale e Dreher rivolge un invito personale al suo lettore, che è un cristiano “impegnato” di questa o quella confessione».

Accettare la sofferenza

Senza accettare la sofferenza però, ha concluso Rod Dreher, è impossibile resistere: «Un ottimista pensa che le cose andranno bene, e sbaglia. Un cristiano spera che le cose andranno bene, ma sa che se non sarà così la sua sofferenza sarà strumento di redenzione del mondo nelle mani di Dio». «Conservare la memoria è fondamentale», ha concluso Mingardi. «Se credete che io sia un allarmista esagerato – ha chiosato Dreher – spero abbiate ragione. Ma era ancora Solzenicyn a dire che se pensiamo che “queste cose non possono accadere qui” dobbiamo sapere che “tutto il male del ventesimo secolo è possibile ovunque”. La scelta di come resistere è nostra».

Foto Tempi

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