Reportage dal Libano, il paese che non ha pane per vivere

Di Rodolfo Casadei
26 Ottobre 2022
Elettricità solo due ore al giorno, molti mendicanti, tanta disperazione. Parlano mons. Jules Boutros e il deputato Mehlem Khalaf
La chiesa francescana di San Giuseppe, andata distrutta dalle esplosioni che hanno devastato Beirut, 5 agosto 2020.
La chiesa francescana di San Giuseppe, andata distrutta dalle esplosioni che hanno devastato Beirut, 5 agosto 2020.

Grazie al sostegno di Orizzonti e di Romagna Solidale l’inviato di Tempi Rodolfo Casadei si trova in Libano. Qui trovate la prima delle sue corrispondenze per il sito, che lasciamo aperta alla lettura anche dei non abbonati. Il reportage completo potrà essere letto sul prossimo numero di Tempi mensile

Beirut – È una strana povertà quella del Libano entrato nel terzo anno di una crisi sistemica che investe finanza, economia e politica. Le statistiche raccontano un paese dove nel giro di due anni la popolazione in condizioni di povertà relativa è passata dal 40 all’80 per cento, dove a causa dell’iperinflazione che ha portato via il 95 per cento del suo valore alla moneta nazionale metà delle persone che lavorano ora devono accontentarsi di stipendi equivalenti a 36-90 dollari al mese, mentre le banche ostacolano in tutti i modi i prelievi dei risparmi dai conti correnti bancari, dove i carburanti costano sedici volte di più di due anni fa, e il gas per la casa 40 volte in più.

Eppure chi arriva a Beirut di sera incontra il solito traffico caotico e senza tregua che la accomuna alle altre capitali mediorientali, e migliaia di finestre illuminate, per non parlare dei pannelli giganti della pubblicità. Basta però scendere dall’automobile e fare due passi per le vie di qualsiasi quartiere, o sdraiarsi sul letto della propria stanza in qualunque struttura di ospitalità, per udire ovunque un ronzio sordo e ininterrotto: quello dei generatori diesel di quartiere, pagati dai privati cittadini a privati gestori, per avere quelle ore di corrente elettrica che normalmente vanno dalle 6.30 della mattina a mezzanotte. Perché la Società elettrica nazionale non garantisce più che una-due ore al giorno di energia dalla rete, e subito fuori Beirut nemmeno quella.

Appena fuori dal ristorante

Mons. Jules Boutros
Mons. Jules Boutros

Se si entra nel quartiere cristiano di Gemmaizeh, famoso per il mix architettonico, le botteghe artigiane e i locali di tendenza, si resta colpiti dalla vivacità della vita notturna, fra le vetrine ben illuminate e ben fornite e auto di passaggio di ogni cilindrata; si notano locali molto frequentati o addirittura senza tavoli liberi. Ma basta avvicinarsi, osservare i frequentatori, ascoltare i loro discorsi che passano senza soluzione di continuità dall’inglese all’arabo al francese, per rendersi conto che si tratta nella grande maggioranza di espatriati (operatori di Ong, turisti, studenti stranieri) o di libanesi della diaspora, che fanno la spola fra l’Europa e il Libano.

Basta uscire dal ristorante e ci si imbatte nei mendicanti che non sono più rappresentati solo dai profughi siriani (fra un milione e un milione e mezzo, specialisti degli incroci con semaforo e dei cavalcavia, sotto i quali si sistemano anche con pile di materassi che vengono sparpagliati a terra la sera) o da invalidi civili locali, ma da quella signora cinquantenne, pantaloni e decente maglia a maniche corte, che fuori da una trattoria cerca di raccontare le disgrazie sanitarie della sua famiglia e chiede un’offerta in denaro a chi ha appena cenato.

Ong e agenzie di cooperazione

Alla luce del giorno stupisce scoprire che i quartieri devastati dall’esplosione del porto dell’agosto 2020 – Gemmaizeh, Mar Mikhail, Achrafieh – hanno avuto tutte le case e i palazzi restaurati o addirittura ricostruiti, persino le case disabitate hanno riavuto i vetri alle finestre. Resta spettrale e privo di qualunque segno di ricostruzione, gli uffici su 20 piani trasformati in centinaia di occhiaie vuote che guardano sia il mare verso l’esterno che il quartiere verso l’interno, il palazzo dell’Electricité du Liban, sede centrale della società pubblica che dovrebbe fornire l’energia elettrica al paese.

E allora il mistero comincia a svelarsi: Gemmaizeh e le altre aree danneggiate di Beirut sono state ricostruite grazie alla solidarietà internazionale che ha operato attraverso Ong e agenzie di cooperazione dei vari paesi, e alla solidarietà della diaspora libanese, che ha finanziato la ricostruzione e l’installazione di migliaia di pannelli solari che complementano l’energia prodotta dai generatori.

Soldi dall’estero

Quella diaspora che ufficialmente invia a casa 6 miliardi di dollari all’anno, cifra che nel 2019 era pari al 16 per cento del Prodotto interno lordo, ma che l’anno scorso equivaleva a un terzo, e alla fine di quest’anno ancora di più. Cifra probabilmente sottostimata.

Insomma, il Libano sopravvive grazie al lavoro di chi è andato all’estero e all’ingegno di chi è rimasto in patria. Spesso controvoglia: secondo l’ultimo rapporto sulle tendenze migratorie nei paesi di lingua araba, il 48 per cento dei libanesi (che sono circa 4,5 milioni, poi ci sono altri 2 milioni e passa di abitanti costituiti da profughi siriani, palestinesi e stranieri di varia provenienza) desidera emigrare. Fra il 2017 e la fine del 2021 secondo le statistiche ufficiali 215.653 libanesi hanno abbandonato il Paese, cioè quasi il 5 per cento di chi ha la cittadinanza.

Il vescovo cattolico più giovane al mondo

«Non posso dire ai nostri giovani, alle nostre famiglie: “Non emigrate!”. Gli uomini non sono alberi, a volte non trovano nutrimento sufficiente lì dove sono nati, e allora si spostano nel mondo», dice mons. Jules Boutros, da maggio vescovo siro-cattolico di curia del patriarcato di Antiochia. Coi suoi 39 anni Boutros è attualmente il vescovo più giovane del mondo cattolico, e la pastorale giovanile è da sempre il suo campo di azione preferito. È responsabile della pastorale universitaria e dei movimenti laicali.

Nei mesi successivi all’esplosione nel porto di Beirut ha guidato squadre di giovani che partecipavano ai soccorsi, visitavano le famiglie, censivano i bisogni e cercavano di soddisfarli. «A chi parte raccomando di vivere la chiamata alla santità là dove andrà. Tanti emigrano pensando di cambiare in meglio la propria vita grazie al fatto che dove vanno c’è sempre l’elettricità, si trova un lavoro e i salari sono decenti. Tutto questo dà sicurezza, ma non dà gioia: dopo un po’ sentiranno il peso della solitudine. Io dico a questi giovani: l’uomo è creato per servire Dio, solo in questo trova la sua gioia. Lì dove andate non dovete essere solo una buona manodopera, dei professionisti efficienti, dovete essere dei missionari! I paesi dove andate hanno bisogno della nostra fede più ancora che della nostra manodopera, hanno bisogno dell’ardore di Cristo che è nei nostri cuori».

«Per tenere viva la fede e la missionarietà dei nostri emigrati in questi anni li ho visitati nei paesi dove emigrano: in Olanda, Belgio, Francia, Italia, Germania, Svezia, Turchia, ecc. L’etimologia originaria della parola “diaspora” è “seminagione”. È un’immagine di vita, l’immagine di piante che crescono e danno frutto. Ma bisogna aiutarli con la vicinanza perché non cadano nella trappola delle false libertà dei paesi in cui emigrano. Perché non finiscano come il Figliol prodigo».

«Lo Stato è paralizzato»

Rodolfo Casadei con Mehlem Khalaf«Ho vergogna di me stesso di essere deputato, e di non poter soddisfare i miei connazionali che chiedono il pane per vivere, le medicine per curarsi, il latte in polvere per i loro bambini che vanno a cercare fino a Dubai, l’elettricità per lavorare, la possibilità di prelevare i loro risparmi. Lo Stato è paralizzato, in via di decomposizione, e le nostre voci in parlamento non vengono ascoltate, siamo stati esclusi dalle presidenze di tutte le 17 Commissioni parlamentari».

Siamo nello studio di Mehlem Khalaf, avvocato di fama, già presidente dell’Ordine, e da qualche mese deputato del parlamento nazionale, nel quartiere di Badaro; all’angolo della via una coda di una ventina di persone attende di poter entrare nella Blom Bank, uno dei tanti istituti di credito che da mesi esasperano i depositanti impedendo loro di prelevare somme significative dai loro conti correnti bancari. Si entra solo su appuntamento, un paio di persone alla volta: in questi mesi si sono succeduti casi di correntisti che hanno minacciato di usare la forza o di suicidarsi nei locali delle banche che rifiutavano di permettere loro prelievi e operazioni.

Sistema di potere

In realtà Mehlem Khalaf è uno dei deputati che meno dovrebbero vergognarsi della situazione di crisi: è stato eletto per la prima volta alle ultime elezioni, è un esponente della società civile interconfessionale che è scesa in piazza nell’ottobre del 2019 per protestare contro il malgoverno giunto all’apice, fa parte del gruppo delle Forze per il Cambiamento, un gruppo di parlamentari eletti fuori dalle logiche partitiche confessionali, che sotto il mantello del governo di unità nazionale hanno impoverito il paese.

«Democrazia consensuale, governo di unità nazionale o di coesione nazionale, sono gli slogan dietro a cui in questi anni si è creato un sistema di potere basato sul raccordo fra esponenti dei partiti che dicono di rappresentare e proteggere la propria comunità religiosa di riferimento, ma che in realtà si sono spartiti le spoglie del paese, soprattutto attraverso appalti gonfiati e pilotati di opere pubbliche e di servizi pubblici affidati a privati di loro gradimento. In questo paese la corruzione è sia verticale che orizzontale, anche i cittadini comuni sono costretti a diventare corruttori per ottenere licenze e permessi che altrimenti verrebbero loro negati o ritardati enormemente».

I 3 miliardi del Fmi

Nonostante l’insofferenza generalizzata dei libanesi per il mondo politico tradizionale, gli esponenti delle Forze del Cambiamento hanno portato a casa solo 13 seggi sui 120 a disposizione. Hezbollah e Amal, le Forze Libanesi, il partito del presidente Aoun e quello druso dei Jumblatt continuano a restare sulla breccia.

«Colpa di una legge elettorale e di un disegno dei collegi che premia le forze confessionali, regionali, clientelari e punisce le novità politiche. I nostri candidati hanno raccolto più di un quarto di tutti i voti espressi, ma solo un decimo dei seggi».

Con tutto questo, da maggio scorso non è stato formato nessun nuovo governo e quello uscente continua ad amministrare; il 31 ottobre scade il termine utile per eleggere il nuovo capo dello Stato, dopodiché in caso di mancata elezione la carica resterà vacante. Niente di buono per un paese chiamato a riformare il suo sistema finanziario se vuole ottenere i 3 miliardi di dollari di prestiti del Fondo monetario internazionale che soli possono dare ossigeno al sistema ed evitare che imploda da un momento all’altro [1. continua].

Foto © Tempi

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Correzione (25 novembre 2022)
Come segnalatoci da un lettore, l’esplosione che ha devastato il porto di Beirut è avvenuta nel 2020, non nel 2019, data erroneamente riportata nella prima versione di questo articolo.

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