Renzo e Lucia. O della razza cattolica

Di Valenti Francesco
30 Agosto 2000
Dal “giornalista” don Abbondio al “madonnina infilzata”, sintesi linguistica di tutte le cialtronerie del commentatore moderno. Dal volgo disperso che nome non ha, all’esser insieme, come amici a un viaggio convenuto. Dal regno del caos e della necessità, alla casa della libertà e della carità. L’altrove fisico e metafisico rispetto all’ipotesi di un cristianesimo associazionistico e senatoriale. L’antisentimentale e violenta attualità de "I Promessi Sposi". O del cattolicesimo come forma e possibile destino del popolo (con illustrazioni tratte dall’opera di Giovanni Segantini)

Già prima dell’aprile del 1821, quando incomincia a scrivere il romanzo, Manzoni ha descritto la vergogna dei filosofi romantici dinanzi al Vangelo: “E’ inutile moltiplicare esempi per un fatto troppo chiaro, che le idee evangeliche sono escluse quasi del tutto dai discorsi degli uomini, che non è lecito che parlarne qualche volta generalissimamente purché non si faccia mai applicazione, eccetto alcuni casi, p.e. di afflizione…”. A lui rimane ancora una ferma speranza nel popolo, accompagnata da un accenno di amara consapevolezza: “Ah! Se quegli che si chiamano popolo adottassero un giorno la filosofia miscredente, che Dio non voglia…”.

Noi, figli del Dubbio e dell’Ignoto
Il romanzo porta tale traccia nelle parole, nelle figure e nelle “applicazioni” (per usare una parola del Manzoni) morali. E’ questa e non altra la misura di Manzoni.

Solitamente, invece, ci si riduce a descrivere la personalità psicologica del nostro Autore, che diviene un riservato senatore del regno italico-sabaudo, un ex-nobile benestante e pio, un “parigino” colto e un amico di tutti i romantici milanesi dell’epoca. Né sembra che Manzoni abbia fatto molto per sottrarsi a tali interpretazioni. Così, quando la bufera della storia investì il romanticismo, fu sin troppo facile trovare da ridire sul “casto poeta che l’Italia adora”; a lui si augurò, senza mezzi termini: “tu puoi morir, degli antecristi è l’ora”. Ciò nonostante, è stato detto che un secolo e più di incomprensioni non è riuscito a vincere l’opera di Alessandro Manzoni. Quale il segreto dell’attualità dei “Promessi Sposi”? Lo svela forse ancora Emilio Praga, il grande scapigliato, autore dei versi sopra citati, quando qualche anno dopo, alla morte del Manzoni, scrive: “Blanda infanzia! Mia seria adolescenza!…/ Io vi chiamo Manzoni!…/ Dalla sua cetra ebbero forse essenza/ le mie poche canzoni!/ … Noi vaghiam nell’Ignoto. I figli siamo/ del Dubbio (oh i grandi estinti!), / siamo i reietti, i fuggiti da Adamo, / dal ciel, dal fango vinti!/ E cantiamo una squallida canzone, / che al tuo sereno irride, / una canzon che muove a compassione, / che ride e non sorride!…/ Eppur nel fondo vergine del core/ una fede ci resta, / che si rivela in preghiera d’amore…/ e la preghiera è questa: / casto poeta del Buono e del Bello, / guardaci ancor dal cielo; / e sia la croce del tuo sacro avello/ luce immensa…non velo!”.

Quale croce, dalla tomba del Manzoni, può ancora immensamente illuminare i figli del Dubbio e dell’Ignoto?

“Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?”
Distinguendosi dai filosofi romantici, Manzoni pensa che la verità di tutto il cristianesimo è oggettiva ed è da approfondire nella misura di quanto l’età storica la nega. Non mentire a sé e agli altri, indagare ugualmente ciò che è dato per scontato e giungere alla fine a una rappresentazione vera delle cose. Tale ricerca della verità investì anche la sua arte. E’ noto che, in nome della storia – che, impropriamente, in qualche osservazione del Manzoni prende il posto della verità tout court -, talvolta lo scrittore mise in dubbio anche la rappresentazione verosimile del suo romanzo. Se di invenzione si tratta, per Manzoni occorre che sia totalmente adeguata alla verità. Egli riesce a andare oltre l’idea della superiorità della storia affermando che la storia non è tutto: la poesia è più nobile della storia perché la storia non esaurisce il reale. La poesia comincia proprio dove la storia finisce. Il poeta rivela così “la parte perduta “dagli storici.

Poste tali premesse, non stupisce che in tutto il romanzo egli rifiuti la verità di chi, come don Abbondio, della realtà offre sempre una lettura arbitraria, che assume i connotati immorali della (quanto giornalisticamente moderna!) deformazione linguistica, tanto maggiormente violenta quanto più utilizza, per i propri scopi travisanti, anche le osservazioni del pensiero cristiano.

Il battuto era almeno un imprudente; l’ammazzato era sempre stato un uomo torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente, rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia soltanto dell’una o dell’altro.

(capitolo I)
L’apice immorale della deformazione delle parole è già tutta presente in quella definizione che don Abbondio e Perpetua danno di Lucia, ripetuta due volte nel romanzo, “madonnina infilzata”. Ma diviene addirittura empietà quando il curato offre una sua lettura storica degli avvenimenti legati alla peste:
– Ah! – diceva poi tra sé don Abbondio, tornato a casa: – se la peste facesse sempre e per tutto le cose in questa maniera, sarebbe proprio peccato il dirne male; quasi quasi ce ne vorrebbe una, ogni generazione….
(capitolo XXXVIII)
La falsità delle favole investe anche situazioni ben concrete e gravi. Come nel caso della rivolta del pane a Milano, quando Manzoni osserva che la devastazione di tutti i forni non è il modo migliore “per far vivere il pane”. E prosegue:
Ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva. Però, senza essere un gran metafisico, un uomo ci arriva talvolta alla prima, finch’é nuovo alla questione; e solo a forza di parlarne, e di sentirne parlare, diventerà inabile anche a intenderle…Spesso, in simili circostanze, l’annunzio d’una cosa la fa essere.
(capitolo XII)
E’, questo, un altro esempio di quella pseudo-lingua che in tutti i “Promessi Sposi” viene presa di mira. Mentre nel caso di don Abbondio la corruzione della realtà attraverso le parole deriva dalla codardia come ingiustificabile debolezza morale, qui essa è presente come meccanismo irrazionale di un popolo senza guida che è divenuto perciò massa informe. Similmente Manzoni descrive il meccanismo politico delle leggi che operano sulla realtà del bisogno di pane analogamente a “una donna stata giovine, che pensasse di ringiovanire, alterando la sua fede di battesimo”.

Siccome però tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi, non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, nè di far venir derrate fuori di stagione…così il male durava e cresceva.
(capitolo XII)
Ma è nella descrizione dei “sapienti” che l’arbitrio di una ragione alterata viene costantemente riprovato.

L’anonimo…dice adunque che, al primo parlar che si fece di peste, don Ferrante fu uno de’ più risoluti a negarla, e che sostenne costantemente fino all’ultimo, quell’opinione; non già con ischiamazzi, come il popolo; ma con ragionamenti, ai quali nessuno potrà dire almeno che mancasse la concatenazione.


(capitolo XXXVII)
Negli errori e massime negli errori di molti, ciò che è più interessante e più utile a osservarsi, mi pare che sia appunto la strada che hanno fatta, l’apparenze, i modi con cui hanno potuto entrare nelle menti, e dominarle…Si potrebbe però, tanto nelle cose piccole, come nelle grandi, evitare, in gran parte, quel corso così lungo e così storto, prendendo il metodo proposto da tanto tempo, d’osservare, ascoltare, paragonare, pensare, prima di parlare.
(capitolo XXXI)
Non stupisce perciò che a riguardo della religione Manzoni cercasse una via veritiera, rifiutando le giustificazioni insufficienti delle filosofie del suo tempo. Per lui, autorità e rivelazione non sono premesse della logica, ma le conclusioni a cui arriva una logica rigorosa, che, poi, in virtù della stessa rivelazione, ne uscirà rafforzata e estesa. Come dice Romano Amerio, per Manzoni “la relazione tra filosofia e religione non può essere che quella dell’intelletto tra vero e falso, cioè soltanto una relazione logica, la quale o integra la religione nella verità conoscibile dalla ragione, oppure la dissocia e la disintegra da quella, abbassandola come un non valore”. Se, dunque, ciò che spiega la superiorità del cristianesimo è la sua corrispondenza con l’intera verità dell’intelletto, tale verità Manzoni sa riconoscere in polemica con tanta parte della filosofia illuministica e romantica, e sa rappresentare nell’unicità del suo romanzo. E’ in questo senso che Manzoni, agostiniano e pascaliano dopo Voltaire, s’azzarda a descrivere anche la repentina conquista della fede. Come avviene nell’emblematico episodio della notte dell’innominato, in cui il fuoco dell’anima divora, perché questa è chiamata a strapparsi da un’immagine di sé e a compiere il salto vertiginoso verso la verità dell’essere. Sempre l’innominato compendierà con quel grido “Dio! Dio! Dio! Se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?” la ragionevole affermazione che sta all’origine di ogni ricerca.

La vita come iter e l’assenso che ci salva
Le vicende del romanzo si dipanano secondo diversi livelli, il primo dei quali, quello di “gente meccaniche”, ha fatto parlare anche troppo di “umili”, di “oppressi”, di “poveri”, di “classi subalterne”, ecc… A differenza del suo contemporaneo Giacomo Leopardi, Manzoni sceglie una categoria quanto mai a lui consona, che è quella del popolo, e la pone di fronte all’alternativa tra essere “volgo disperso che nome non ha” o essere “insieme, come amici a un viaggio convenuto”. E’ la scelta di descrivere la storia dei senza storia, che Manzoni affianca a quella conosciuta e evidente; egli le indaga entrambe per quello che esse possono offrire e le fa intersecare comunque da una storia nascosta, la Provvidenza, che le illumina pienamente. Sbaglia chi crede che tale ordine provvidenziale possa essere facilmente conosciuto da un’astuta ragione – perché esso è un “caos di possibili”. Ma sbaglia anche chi lo pensa tanto trascendente da non operare mai. “Affermare manzoniamente la Provvidenza – ha scritto Rodolfo Quadrelli – significa semplicemente riconoscere che c’è un destino ovvero un bene sottratto al nostro sforzo e al nostro merito. In Manzoni lo scampo dalla Storia è oggettivo, e perciò più difficile da percepire e da sceverare che non nel drastico ma elementare Stendhal e nel drammatico ma non meno risoluto Tolstoi. In Manzoni l’oggettività della Provvidenza vuol essere un’azione reale che ci trascende e che, in certo modo, noi dobbiamo assecondare. Essa non ci obbliga, tanto che a tratti non riusciamo nemmeno a scorgere il suo filo d’Arianna; ma nemmeno è al di sopra di noi, come quell’ ‘eterno rapporto delle cose’ di cui parla Tolstoi, che è tanto remoto dal gioco mondano da non intervenire e non agire mai. La Provvidenza invece agisce, anche se noi non collaboriamo affatto con essa: dobbiamo però intenderla e vederla, e in questa semplice intelligenza consiste l’assenso che ci salva”.

E’ la presenza e l’indagine di questa storia nascosta il motivo per cui, con uno strumento quale il romanzo, nato per rappresentare il regno del caos e della necessità, Manzoni dà luogo così spesso a una rappresentazione della libertà e della carità, pur senza mancare nel disvelamento dell’opzione che svela un senso morale. Di qui deriva la caratteristica di “viaggio della conoscenza di sé e del mondo” che più d’ogni altra investe la storia di Renzo e Lucia.

In viaggio con “i guai”, al tempo in cui le leggi diluviano per far trionfar l’arbitrio
Il viaggio comincia all’improvviso davanti a un’ingiustizia, in un tempo sfavorevole come lo è sempre il tempo storico, nel quale “una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto” (“Adelchi”). Il tempo della storia è quello del secolo XVII, in cui l’organizzazione medioevale dello stato non esisteva più e quella moderna non era ancora sorta.

Non già che mancassero leggi e pene contro le violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano enumerati, e particolareggiati con minuta prolissità; le pene, pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori…Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori; o, se producevano qualche effetto immediato, era principalmente d’aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano da’ perturbatori, e d’accrescer le violenze e l’astuzia di questi.
(capitolo I)
E’ la storia che ci sta sopra la testa e che tanto spesso possiamo solamente stare a guardare, in una prova che ci investe analogamente a quella del male personalmente subìto.

Passano i cavalli di Wallentstein, passano i fanti di Merode, passano i cavalli di Anhalt, passano i fanti di Brandeburgo, e poi i cavalli di Montecuccoli, e poi quelli di Ferrari; passa Altringer, passa Furstenberg, passa Colloredo; passano i Croati, passa Torquato Conti, passano altri e altri; quando piacque al cielo, passò anche Galasso, che fu l’ultimo.
(capitolo XXX)
L’affronto della storia è per gli sposi promessi anzitutto la capacità di interpretare e portare i “guai”, parola che, manzonianamente, indica il “male”. Il viaggio dunque comincia con un perturbamento e una fuga, che è un avvicinamento a un criterio con il quale imparare a vivere. Questo si presenta precisamente quando gli eventi sono letti come “provvida sventura”, attraverso le parole decisive del padre Cristoforo. Il paradosso cristiano del frate, nel suo avvicinarsi a un’altra logica, scuote ma non manipola la realtà: come quel “Dio vi ha visitate!”riferito alla sciagura che ha investito Lucia, vale a dire l’impatto col mondo attraverso la libidinosa voglia di don Rodrigo.

“Prima che partiate,” disse il padre, “preghiamo tutti insieme il Signore, perché sia con voi, in codesto viaggio, e sempre; e sopra tutto vi dia forza, vi dia amore di volere ciò ch’Egli ha voluto.”…Noi, nella nostra tribolazione, abbiamo questo conforto, che siamo nella strada dove ci avete messi Voi: possiamo offrivi i nostri guai; e diventano un guadagno…
(capitolo VIII)
Il campione del “guadagno” in mezzo ai guai non sarà però don Abbondio, con quella sua blasfema interpretazione della peste, ma lo saranno proprio gli sposi. Il guadagno è già presente nell’intuizione poetica assoluta di un viaggio nella vita che comincia come sradicamento e nostalgia (“Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo…Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne loro una più certa e più grande”), e approda alla coscienza di un ordine provvidenziale. Esso è come un refrigerio sull’aridità dell’esistenza, quando è riuscito a farsi strada nella memoria e nella lettura degli avvenimenti. In mezzo a “quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace”,
Principiò come una grandine di goccioloni radi e impetuosi…Renzo, in vece d’inquietarsene, ci sguazzava dentro, se la godeva in quella rinfrescata, in quel sussurrìo, in quel brulichìo dell’erbe e delle foglie, tremolanti, gocciolanti, rinverdite, lustre; metteva certi sospironi larghi e pieni; e in quel risolvimento della natura sentiva come più liberamente e più vivamente quello che s’era fatto nel suo destino.
(capitolo XXXVII)

Ribellati quanto vuoi, ma la verità è Lucia
Lucia rappresenta nel romanzo quel che noi tutti abbiamo ripudiato. Essa è il destino stesso che attende la nostra storia che, pure, a lei si ribella. Che tale destino sia stato osteggiato, perché diventi per noi tanto lontano da parere impossibile, è evidente anche solo se pensiamo al fatto che, per Lucia, semplicemente, amore e verginità coincidono.

Con questo personaggio Manzoni accetta la sfida più difficile, quella di descrivere la possibile presenza storica dello spirito cristiano, e lo fa sempre accentuandone le scelte e perciò l’alternativa rispetto a un facile accomodamento. Nei confronti di questa figura si tende a ragionare come donna Prassede, in cui il realismo lombardo è divenuto rozzezza quando non brutalità, e il cui astratto filantropismo illuministico accresce la distanza dalla semplice verità della persona di Lucia.

Non che, in fondo, come si dice, non le paresse una buona giovine; ma c’era molto da ridire. Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla fontanella della gola, quel non rispondere o risponder secco secco, come per forza, potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente molta caparbietà.Non ci voleva molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee. E quell’arrossire ogni momento, e quel rattenere i sospiri…Due occhioni poi, che a donna Prassede non piacevan punto. Teneva essa per certo, come se lo sapesse di buon luogo, che tutte le sciagure di Lucia erano una punizione del cielo per la sua amicizia con quel poco di buono…Giacchè, come diceva spesso agli altri e a sè stessa, tutto il suo studio era di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch’era di prender per cielo il suo cervello.
(capitolo XXV)
Lucia è la protagonista dell’ignobile fatto che sta all’origine di tutta la storia, quello del desiderio di possedere una vergine da parte di un libertino, un piccolo potente del secolo “sudicio e sfarzoso”. Manzoni non indulge alla maniera di certi illuministi a descrivere pulsioni e scenari da incubo, ma preferisce intrecciare due destini, facendo raccontare a Lucia l’origine della scommessa di don Rodrigo:
E, con voce rotta dal pianto, raccontò come, pochi giorni prima, mentre tornava dalla filanda, ed era rimasta indietro dalle sue compagne, le era passato innanzi don Rodrigo, in compagnia di un altro signore; che il primo aveva cercato di trattenerla con chiacchiere, com’ella diceva, non punto belle; ma essa, senza dargli retta, aveva affrettato il passo, e raggiunte le compagne; e intanto aveva sentito quell’altro signore rider forte, e don Rodrigo dire: scommettiamo. Il giorno dopo, coloro s’eran trovati ancora sulla strada; ma Lucia era nel mezzo delle compagne, con gli occhi bassi; e l’altro signore sghignazzava, e don Rodrigo diceva: vedremo, vedremo.
(capitolo III)
Lucia è perciò presente – al tempo stesso immagine da scalzare e pietra di paragone e di scandalo – in ogni percorso che sottolinea particolarmente il male e che muove verso qualche bene, da quello del signorotto Rodrigo, alla Signora di Monza e all’innominato. Lei, a sua volta, ricorrerà al voto che verrà poi sciolto, secondo un processo di totale affidamento a Dio; categorie, queste, estreme e impossibili per la mentalità del razionalista scettico e navigato, così come per quella del sentimentalismo romantico. Quando Renzo la ritrova nel lazzaretto di Milano, la descrive e la scopre definitivamente come amorosa forza:
Si china per levarsi il campanello, e stando così col capo appoggiato alla parete di paglia d’una delle capanne, gli vien da quella all’orecchio una voce…Oh cielo! è possibile? Tutta la sua anima è in quell’orecchio: la respirazione è sospesa…Sì! sì! è quella voce!…”Paura di che?” diceva quella voce soave: “abbiam passato ben altro che un temporale. Chi ci ha custodite finora, ci custodirà anche adesso”.
(capitolo XXXVI)

Gertrude. O del dramma della libertà
Vi son de’ momenti in cui l’animo, particolarmente de’ giovani, è disposto in maniera che ogni poco d’istanza basta a ottenerne ogni cosa che abbia un’apparenza di bene e di sacrifizio: come un fiore appena sbocciato, s’abbandona mollemente sul suo fragile stelo, pronto a concedere le sue fragranze alla prim’aria che gli aliti punto d’intorno.
(capitolo X)
E’ uno dei numerosi punti in cui “I Promessi Sposi” s’innalzano sopra le loro pur così precise conclusioni morali e divengono realtà metafisica, vero correlativo oggettivo dell’anima di una giovane, analogamente a quel fiore che, tuttavia, sta per essere violentemente reciso. Manzoni sta infatti parlando di Gertrude e della sua tragica vicenda. A lei il padre impone una vita non desiderata, utilizzando la disposizione propria dell’anima dei giovani verso l’Infinito per ucciderne la libertà:
Questi momenti, che si dovrebbero dagli altri ammirare con timido rispetto, son quelli appunto che l’astuzia interessata spia attentamente e coglie di volo, per legare una volontà che non si guarda.
(capitolo X)
Sembra di vederla, l’anima “semplicetta che sa nulla” (“Purgatorio” XVI), muoversi con una “volontà che non si guarda”, perché si affida totalmente a “quell’apparenza di bene e di sacrifizio” cui è disposta a donare tutto. Qui, diversamente che in Dante, l’inganno che travia e che svia proviene dal di fuori; ma analogamente all’anima semplicetta di Dante, poco più avanti nella storia, Gertrude potrà scegliere la propria via, e tutti sappiamo come quel “no” ch’ella avrebbe potuto dire, non sia invece mai giunto. Dapprima per amore del padre: “Ah sì!” esclamò Gertrude, scossa dal timore, preparata dalla vergogna, e mossa in quel punto da una tenerezza istantanea. Poi, “dopo dodici mesi di noviziato, pieni di pentimenti e di ripentimenti, si trovò al momento della professione, al momento cioè in cui conveniva, o dire un no più strano, più inaspettato, più scandaloso che mai, o ripetere un sì tante volte detto; lo ripetè, e fu monaca per sempre”.

Ma il cristianesimo dispone non alla tragedia, semmai al dramma della libertà, per il quale c’è sempre un punto oltre il flusso della storia al quale l’uomo si può legare e che garantisce la sua libertà anche nelle condizioni estreme. Tutti gli stupendi capitoli dedicati a Gertrude lo testimoniano.

E’ una delle facoltà singolari e incomunicabili della religione cristiana, il poter indirizzare e consolare chiunque, in qualsivoglia congiuntura, a qualsivoglia termine, ricorra ad essa…E’ una strada così fatta che, da qualunque laberinto, da qualunque precipizio, l’uomo capiti ad essa, e vi faccia un passo, può d’allora in poi camminare con sicurezza e di buona voglia, e arrivar lietamente a un lieto fine.
(capitolo X)
La figura di Gertrude si staglia avendo sullo sfondo il mistero cristiano della libertà, per il quale Manzoni cerca sempre il riscatto di un punto di fuga, che accompagna pertanto anche i delitti compiuti e le azioni obbliganti cui si è costretti da un ricatto o dalla restituzione di favori:
La proposta riuscì spaventosa a Gertrude. Perder Lucia per un caso impreveduto, senza colpa, le sarebbe parsa una sventura, una punizione amara: e le veniva comandato di privarsene con una scellerata perfidia, di cambiare in un nuovo rimorso un mezzo d’espiazione. La sventurata tentò tutte le strade per esimersi dall’orribile comando; tutte, fuorché la sola ch’era sicura, e che le stava pur sempre aperta davanti. Il delitto è un padrone rigido e inflessibile, contro cui non divien forte se non chi se ne ribella interamente. A questo Gertrude non voleva risolversi; e ubbidì.
(capitolo XX)
Non è Emma Bovary. O dell’alternativa tra libertà e psicologismo
Al contrario, il grande romanzo ottocentesco francese canta l’epopea borghese del mondo, attraverso personaggi legati indissolubilmente a un implacabile processo storico e allo sviluppo di azioni morali meccanicisticamente concatenate. Così, per esempio, Flaubert assomma alle sensazioni psicologiche di Emma Bovary parole che cadono come pietre tombali sulla speranza di riscatto di una vita che, inesorabilmente, la conduce nelle braccia degli amanti e della morte:
Un jour qu’en prévision de son départ elle faisait des rangement dans un tiroir, elle se piqua les doigts à quelque chose. C’était un fil de fer de son bouquet de mariage. Les boutons d’oranger étaient jaunes de poussiéere, et les roubans de satin, à liséré d’argent, s’effilloquaient par le bord. Elle le jeta dans le feu. Il s’enflamma plus vite qu’une paille sèche.Puis ce fut comme un buisson rouge sur les cendres, et qui se rongeait lentement. Elle le regarda brûler. Les petites baies de carton éclataient, les fils d’archal se tordaient, le galon se fondait; et les corolles de papier, racornies, se balançant le long de la plaque comme des papillons noirs, enfin s’envolèrent par le cheminée.

Quand on partit de Tostes, au mois de mars, Mme Bovary était enceinte.
(“Madame Bovary”, prima parte, IX)
La libertà di Gertrude è invece messa alla prova sino alla fine e sarà affermata proprio nel momento della disfatta, allorquando la Signora decide di farsi murare viva, dal 1607 sino alla morte nel 1650, in Santa Valeria a Milano. Quasi in un angolo del penultimo capitolo, Manzoni ne parla con pudore, attraverso lo sguardo di Lucia, osservando mirabilmente:
Lucia…venne a sapere di costei cose che, dandole la chiave di molti misteri, le riempirono insieme l’animo d’una dolorosa e paurosa meraviglia. Seppe dalla vedova che la sciagurata, caduta in sospetto d’atrocissimi fatti, era stata, per ordine del cardinale, trasportata in un monastero di Milano; che lì, dopo molto infuriare e dibattersi, s’era ravveduta, s’era accusata; e che la sua vita attuale era supplizio volontario tale, che nessuno, a meno di non toglierlela, ne avrebbe potuto trovare un più severo.
(capitolo XXXVII)
Il cielo è dei violenti. La giustizia dei vermi della terra
Lo scandaglio delle azioni e della storia apparente e nascosta permette a Manzoni di spingere il discorso in luoghi e zone sempre più estremi, proprio perché in essi è possibile trovare la somma dignità della creatura.

Come nella sublimità metafisica dell’immagine della madre di Cecilia, vera presenza di dolore e di grazia nel mezzo dell’orrore della peste.

Scendeva dalla soglia d’uno di quegli usci, e veniva verso il convoglio, una donna, il cui aspetto annunziava una giovinezza avanzata, ma non trascorsa; e vi traspariva una bellezza velata e offuscata, ma non guasta, da una gran passione, e da un languore mortale: quella bellezza molle a un tempo e maestosa, che brilla nel sangue lombardo.
(capitolo XXXIV)
La giustizia e la carità sono i temi con i quali si congeda la parte che potrebbe essere definita epica o poetica del romanzo, prima della conclusione finale. E’ il dialogo tra Renzo e il padre Cristoforo a riproporre il nucleo del romanzo e a riepilogare il senso cristiano della realtà. Attraverso lo sdegno del frate e il successivo incontro col morente don Rodrigo, Renzo è obbligato a osservare il volto della vera giustizia della storia, cioè il perdono.

“Guarda chi è Colui che gastiga! Colui che giudica, e non è giudicato! Colui che flagella e che perdona! Ma tu, verme della terra, tu vuoi far giustizia! Tu lo sai, tu, quale sia la giustizia! Va, sciagurato, vattene! Io, speravo…sì, ho sperato che, prima della mia morte, Dio m’avrebbe data questa consolazione di sentir che la mia povera Lucia fosse viva; forse di vederla, e di sentirmi prometter da Lei che rivolgerebbe una preghiera là verso quella fossa dov’io sarò. Va, tu m’hai levata la mia speranza. Dio non l’ha lasciata in terra per te; e tu, certo, non hai l’ardire di crederti degno che Dio pensi a consolarti”.

“Tu vedi!” disse il frate, con voce bassa e grave. “Può esser gastigo,può esser misericordia. Il sentimento che tu proverai ora per quest’uomo che t’ha offeso, sì; lo stesso sentimento, il Dio, che tu pure hai offeso, avrà per te in quel giorno. Benedicilo, e sei benedetto. Forse il Signore è pronto a concedergli un’ora di ravvedimento; ma voleva esserne pregato da te: forse vuole che tu ne lo preghi con quella innocente; forse serba la grazia alla tua sola preghiera, alla preghiera d’un cuore afflitto e rassegnato. Forse la salvezza di quest’uomo e la tua dipende ora da te, da un tuo sentimento di perdono, di compassione…d’amore!”.
(capitolo XXXV)
Nel VI canto dell’ “Eneide”, con parole che compendiano il sentimento del destino nel mondo pagano, la Sibilla dice a Palinuro che è inutile pregare il fato e gli dei per tentar di modificare un decreto assoluto e stabilito (“Desine fata deum flecti sperare precando”). Com’è noto, Dante riprende e discute tali parole nel VI del “Purgatorio”, per spiegare uno dei punti più importanti della dottrina cristiana, il dogma della comunione dei santi. Poi le amplia nel canto XX del “Paradiso”, mostrando come Dio ami lasciarsi vincere dalla sua creatura: “Regnum coelorum violenza pate / da caldo amore e da viva speranza, / che vince la divina volontate; / non a guisa che l’omo a l’om sobranza, / ma vince lei perché vuol esser vinta, / e, vinta, vince con sua beninanza”.

In quell’attesa di Dio d’esser riconosciuto da Renzo, d’esser pregato per la sorte di un ingiusto e per la sua, in quell’attesa di misericordia, sta dunque l’umile verità sublime di questo romanzo cristiano.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.