
Il renzismo sul lettino

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
È il 2 luglio 2014 quando Matteo Renzi pronuncia all’Europarlamento di Strasburgo il suo discorso di inaugurazione del semestre di presidenza italiana. Sono i mesi ancora ruggenti dei suoi mille giorni a Palazzo Chigi, gli anni del consenso in cui mainstream e giornaloni raccolgono ogni sua espressione come vaticinio da interrogare sondandone il sicuro potenziale rivoluzionario. In quella occasione Renzi torna sull’arata questione generazionale e però con espressioni inaudite rispetto alla dialettica ormai un po’ logora della rottamazione e delle gufate. «Qui c’è una generazione nuova – dice Renzi – che ha il dovere di riscoprirsi Telemaco e così meritarsi l’eredità dell’Europa».
A Telemaco – che scruta da Itaca l’azzurro mare in attesa di scorgervi il ritorno del padre Ulisse – Omero dedica i primi quattro libri dell’Odissea; Renzi chiude la telemachia nello spazio di un tweet: «All’inizio dell’Odissea Atena chiama Telemaco e gli dice: non potrai mica pensare di restare qui ad attendere». I figli – è il senso del suo discorso – devono smettere d’aspettare i padri, è ora che si mettano in cammino per meritarne l’eredità. C’è qualcosa che non torna evidentemente nella versione renziana considerando che Telemaco non si mette sulle tracce del padre dopo averlo rottamato e considerando che l’Odissea non è il libro dell’eterno futuro ma della nostalgia e del ritorno, del padre e dell’ordine infranto. Ma l’esegetica dell’intellettuale collettivo è pronta a cogliere lo spirito del discorso di Strasburgo. Silvia Ronchey, filologa sensibile ai segni arcani dell’anima mundi, sulla Stampa parla del «transfert geniale di Matteo Renzi con Telemaco» e poco importa, aggiunge «che l’ispirazione sia stata mediata dalla musa di uno psicanalista lacaniano o che gli sia venuta direttamente da Omero». Tanto più che: «Alto e squadrato, eloquente e conciso, come figlio di Ulisse e rappresentante dell’evocata “generazione Telemaco”, Renzi funziona nell’immagine anche meglio dell’efebico Telemaco televisivo della nostra, se non della sua, infanzia».
Tanta roba direbbe il poeta. Tanto più che Massimo Recalcati, è lui lo psicologo lacaniano evocato da Ronchey, conferma la cogenza dell’intuizione: Renzi è il Telemaco che doveva venire. «Oggi è il tempo dei figli e del loro viaggio – dice l’autore de Il complesso di Telemaco – diversamente da Edipo, non vuole la pelle del padre, non entra in conflitto mortale con i suoi avi. Sa che per riportare la Legge ad Itaca bisogna unire le forze, bisogna rifondare un patto tra le generazioni».
Papà Tiziano, a proposito di complessi edipici, avrebbe qualcosa da dire a Recalcati, per esempio su quella richiesta di doppia pena che il figlio ha rivolto alla magistratura in caso di sua colpevolezza mentre metteva la mano sul fuoco per l’innocenza del fido Lotti. Ma sono particolari, parva materia, di fronte al grande affresco mito-politico dove l’archetipo di Telemaco trova la sua incarnazione in Matteo Renzi. Che peraltro c’ha pure il fisico, giura Ronchey, per il ruolo.
C’è un altro piccolo particolare tuttavia che tra proiezioni, archetipi, transfert e soprattutto patti da rispettare viene rimosso. La musa che ha ispirato il “geniale transfert” tra Telemaco e Matteo, si chiama Andrea Marcolongo (adesso ha scritto un libro bellissimo, La lingua geniale. 9 ragioni per amare il greco, Laterza): dal 2013 fa la ghost writer per palazzo Chigi. È lei che scrive i discorsi di Renzi, compreso quello di Strasburgo, fino a quando non si congeda dal premier con una mail di addio. «Non sono mai stata pagata, a parte una mensilità», rivela a Panorama nel gennaio 2015. «Eravamo tutti così. Viaggi a Roma e lavori mai pagati, so di persone che si sono indebitate e sono andate dallo psicologo perché distrutte dalle promesse».
Intanto però sul lettino continuano a finirci gli avversari di Renzi: Recalcati li descrive come i proci usurpatori, dei Crono voraci intenti a consumare risorse e speranze del paese, patologicamente asserragliati sulla difensiva rispetto alle meravigliose sorti e progressive dell’avanzata renziana. Quale occasione migliore allora per le nuove generazioni di spazzarli via con il referendum costituzionale del 4 dicembre. Senonché a respingere la riforma Renzi-Boschi sono soprattutto i giovani: dicono No il 70 per cento degli under 35. “Abbiamo un problema Huston”? Ma no. Massimo Recalcati garantisce che «Renzi resta il vero nemico di tutte le forze conservatrici e populiste perché incarna autenticamente la speranza». E del resto lo psicologo lacaniano aveva già certificato, alla vigilia del referendum, che era il fronte del No a essere «malato di conservatorismo, masochismo e di insopportabile paternalismo». E non si cambia una diagnosi per un esito referendario: se la terapia non va bene per il popolo, si cambi il popolo piuttosto.
Del resto anche per Renzi il disastro referendario è solo «un calcio di rigore tirato malissimo». Qualcuno (in storie come queste c’è sempre un grillo parlante) gli ricorda che aveva promesso di lasciare la politica in caso di sconfitta. «Sarebbe troppo comodo» risponde lui. Non specificando per chi. Comunque la sua pausa di riflessione e la sua marcia nel deserto si riducono a un pit-stop d’un paio di giorni a Pontassieve. Poche ore dopo è di nuovo in pista, c’è da preparare un congresso e una rivincita. Un po’ poco per l’elaborazione d’un lutto? Forse sì ma intanto monta l’inchiesta Consip e la dolorosa vicenda del padre. Per il quale, in caso di colpevolezza acclarata, Telemaco chiede la doppia pena. Grillo lo attacca volgarmente: «Renzi – scrive sul suo blog il comico genovese – ha rottamato pure il babbo».
Gusto per il gigantismo
A questo punto l’ex premier muta atteggiamento: dall’anaffettività istituzionale della doppia pena vira al registro patetico-intimistico e fa sapere agli italiani, via blog, che il padre è stato colui che gli ha tolto le ruotine della bici, quello che lo andava a riprendere il sabato sera per riportarlo a casa, che in famiglia ci son stati dei lutti. Sono eventi che a casa Renzi fanno notizia evidentemente o Renzi li ritiene straordinari in quanto avvenuti a lui.
Come che sia i segni sospetti del renzismo cominciano a essere parecchi. Oltre ai “particolari” già inventariati c’è una sintomatologia che anche all’occhio profano si rivela palese: l’iperattivismo coatto anzi tutto, cifra e metrica del renzismo. La propensione all’azzardo non calcolato: l’Italicum pensato solo per la Camera nella sicurezza che il Senato sarebbe stato abolito. Un rapporto disinvolto, diciamo così, con la parola data: «Enrico stai sereno». La propensione provinciale al bovarismo. Un certo gusto per il gigantismo che si materializza per esempio nell’aereo di Stato. Il guasconismo seriale: l’inglese parlato senza saperlo. Il mimetismo da Zelig: i jeans e il chiodo coi giovani, la mimetica al campo militare, l’abito blu notte in parlamento. Le fughe in America – la neverland, into the future – quando le cose vanno male. La mitomania: «Se vince il Sì daremo le carte in Europa e nel mondo». Il battutismo compulsivo: il witz, il motto di spirito, spiegava Freud, è un’aggressione appena mitigata dalla celia; il suo scopo è offensivo, si fa ridere il pubblico mettendo a nudo un tratto debole dell’interlocutore delegittimandolo ma così rivelando insicurezza e soprattutto aggressività latente.
Insomma Massimo Recalcati avrebbe materiale sufficiente almeno per invitare il suo amico ex premier ad accomodarsi sul lettino accanto ai proci. Magari per una terapia di gruppo. Hai visto mai venisse buona per la grande coalizione che s’annuncia.
Foto Ansa
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!