Referendum costituzionale. La riforma delle verità impazzite

Di Luca Antonini
02 Dicembre 2016
Ci dicono: col Sì avremo meno costi e un sistema efficiente. Sarà il contrario: la Renzi-Boschi centralizza e aumenta la spesa. E non tocca le Regioni speciali

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

La Costituzione non è una fra le tante leggi che perseguono obiettivi politici contingenti, ma la decisione fondamentale che esprime le basi comuni della convivenza civile e politica. Essa è il frutto della volontà di convivere e continuare ad esistere, per questo vive di legittimazione giuridica, politica e culturale. Così è stato per la Costituzione del ’48, che, approvata quasi all’unanimità e frutto di un nobilissimo compromesso, è stata la “Costituzione di tutti”, al punto di svolgere un ruolo decisivo nello sviluppo economico e sociale: nel 2003 grazie anche all’equilibrio garantito dal sistema costituzionale, l’Italia era potuta diventare la sesta potenza industriale del mondo. La riforma costituzionale del Governo Renzi divide anziché unire, non mostra i segni di un dialogo, ma le cicatrici di una violenza di una parte sull’altra: già da questo punto di vista, questa riforma ha dunque fallito.

Questa riforma, infatti, è stata portata avanti solo da una minoranza che 1) grazie alla sovra rappresentazione parlamentare fornita da una legge elettorale dichiarata (anche per questo motivo) illegittima dalla Corte costituzionale, è divenuta maggioranza in Parlamento; che 2) ha poi utilizzato gli strumenti parlamentari acceleratori più estremi, delineando un vero e proprio sopruso nei confronti delle garanzie e delle prerogative dell’opposizione; che 3) è giunta al voto finale con una maggioranza racimolata e occasionale (in quasi tre anni ben 244 membri, 130 deputati e 114 senatori hanno cambiato Gruppo principalmente per sostenere all’occorrenza la maggioranza). Una simile maggioranza (rectius: minoranza) non può spingersi fino a cambiare, con un violento colpo di mano, i connotati della Costituzione depotenziando gravemente il pluralismo politico e istituzionale.

La sommatoria tra riforma costituzionale e riforma elettorale, infatti, consegna la Camera dei deputati nelle mani del leader del partito vincente – anche con pochi voti – nella competizione elettorale, secondo il modello dell’uomo solo al comando. Si determinano effetti collaterali negativi su tutto il sistema di checks and balances. L’effetto del combinato disposto tra riforma costituzionale e Italicum altera gravemente l’equilibrio del parlamento in seduta comune: ne risente l’elezione del Capo dello Stato, dei componenti della Corte costituzionale, del Csm, che diventano facile appannaggio del partito che ha vinto le elezioni.

Ma non solo: addirittura la riforma prevede che lo stato di guerra sia deliberato dalla Camera dei deputati a maggioranza assoluta, cosa che per definizione ha, appunto, il partito che con l’Italicum vince le elezioni. Così se un partito “strano” vincesse le elezioni, potrebbe persino portare con troppa facilità l’Italia in guerra. In questi tempi tutt’altro che tranquilli dello scenario internazionale, anche su questo punto la riforma si dimostra altamente insensata.

Contenziosi istituzionali
Anche l’obiettivo, pur largamente condivisibile, di un superamento del cosiddetto bicameralismo perfetto è stato perseguito in modo incoerente e sbagliato. Invece di dare vita ad una seconda Camera che sia reale espressione delle istituzioni regionali, si è configurato un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo. Ulteriore effetto secondario negativo di questa riforma del bicameralismo appare poi la configurazione di una pluralità di procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato: questo farà sicuramente esplodere un nuovo e costoso contenzioso costituzionale.

Ma non solo. È vero che era opportuno modificare il Titolo V, che ha danneggiato gravemente soprattutto il Sud con la sua logica egualitaria, che ha assegnato un esagerato livello di autonomia anche a realtà che invece andavano – mi si permetta la semplificazione – commissariate.

Questo problema, come gli altri, era però stato affrontato e risolto con molto equilibrio e competenza dalla proposta elaborata dai saggi nominati dal Governo Letta, istituita l’11 giugno 2013. La “Relazione degli Esperti” da loro redatta prevedeva, ad esempio, un riequilibrio tra Regioni ordinarie e speciali, per favorire la «riduzione delle diversità ingiustificate». La riforma costituzionale, invece, le esenta del tutto da ogni revisione e stabilizza una diversificazione che ormai da troppo tempo non ha più ragione di esistere. Addirittura quasi eleva le Regioni speciali a enti sovrani, dal momento che per modificare lo statuto di una di queste Regioni non sarà più sufficiente una legge costituzionale (che è sufficiente invece per modificare la Costituzione italiana) ma sarà necessaria una legge costituzionale e un’intesa con la Regione stessa, che dovrà (se vorrà) quindi acconsentire alla modifica.

Troppo ordinarie e troppo speciali
Si produce così il grave paradosso di dividere il paese in Regioni troppo ordinarie e Regioni troppo speciali. Le Regioni ordinarie, anche quelle virtuose, vengono infatti pesantemente ricentralizzate e consegnate al destino di vedere, per l’effetto “vampiro” della clausola di supremazia statale, travalicate tutte le loro competenze. La clausola di supremazia, peraltro, ha senso nei sistemi federali, così come un senato federale: ma se ora, per le Regioni ordinarie, si centralizza tutto, non ha senso né la prima, né il secondo. Non è questione di mera teoria costituzionale. L’inefficiente centralismo italiano (che non è quello francese e che già Luigi Sturzo criticava nel 1949) viene imposto anche alle Regioni virtuose: questo provocherà costi incalcolabili.

I modelli di organizzazione della sanità (la sanità rappresenta l’80 per cento della spesa regionale) di Veneto, Lombardia, Emila-Romagna e Toscana sono eccellenze mondiali. Lo dimostrano i dati Ocse che li pongono ai vertici assoluti nel rapporto tra qualità e costo del servizio. Il punto di forza di questi sistemi è la differenziazione: il modello lombardo è diversissimo da quello toscano, quello veneto da quello emiliano e così via. Ma la semplice tutela dell’interesse nazionale, vale a dire dell’indirizzo politico della maggioranza, potrà consentire, attraverso l’esercizio della clausola di supremazia, di riaccentrare in modo egualitario tutta l’organizzazione sanitaria. I costi derivanti dallo smantellamento di questi sistemi potranno essere enormi (sulla sanità ogni anno impegniamo 110 miliardi).

Andrà così? Facile prevederlo, vedendo già, a Costituzione vigente, alcune soluzioni imposte dalla riforma Madia, come la centralizzazione della nomina dei dirigenti della Sanità, sottratta alle Regioni. Le Regioni speciali, al contrario, come detto vengono esentate del tutto dalla riforma costituzionale, anche in quei casi in cui l’autonomia davvero non ha funzionato, come in Sicilia, regione cui nemmeno si applicheranno i costi standard che pure la riforma introduce.

Ancora: la riforma fa diventare la materia “coordinamento della finanza pubblica” competenza esclusiva dello Stato, decretando: 1) la fine del federalismo fiscale, 2) un ritorno a quella finanza derivata che in Italia ha fatto esplodere i costi, 3) legittimando pienamente quei tagli lineari statali che hanno sempre scacciato la spesa buona e mantenuto quella cattiva.

Stallo inevitabile
Occorre considerare che se la riforma costituzionale riporta il pendolo della storia sul centralismo e non sulla responsabilità, quel pendolo non si può sballottare troppo radicalmente in modo indolore: il nuovo centralismo oltre a smantellare i sistemi virtuosi farà anche riproliferare gli apparati statali; i costi saranno ingenti e certo non comparabili ai (risibili al confronto) risparmi che si otterranno eliminando gli emolumenti dei senatori.

Da ultimo, occorre rilevare che la possibilità del regionalismo differenziato (oggi prevista dalla Costituzione e che, se attuata, permetterebbe di superare il paradosso attuale di uno Stato centrale invasivo al Nord e assente al Sud) viene depotenziato dalla riforma Renzi, riducendo gravemente il numero di materie che ne possono essere oggetto. Nelle poche righe del nuovo articolo 116 si è riusciti a inserire ben cinque volte la parola “limitatamente”, confermando quindi una miope, fortissima volontà di accentramento anche rispetto alle regioni efficienti.

A queste obiezioni si potrebbe rispondere che, una volta varata la riforma, potrà (e dovrà) essere corretta. Fatico, purtroppo, a condividere questo ottimismo, sia per ragioni tecniche che politiche. Il nuovo Senato che – come ha metaforicamente descritto Michele Ainis – sarà ridotto, nell’attività legislativa ordinaria, alla stregua di una «suocera inascoltata che dà consigli non richiesti», condivide eppure il massimo potere normativo dell’ordinamento: le leggi costituzionali sono infatti pienamente bicamerali. Quindi per tornare a cambiare la Costituzione occorrerà la maggioranza del Senato, che però è eletto in modo proporzionale: quindi ci saranno maggioranze disomogenee tra Camera (eletta invece con l’Italicum) e Senato, per cui lo stallo sarà inevitabile.

Cosa faranno i mercati
Il nuovo assetto prefigurato dalla riforma contiene una quantità insostenibile di quelle che Chesterton chiamava le “verità impazzite”, che riteneva le più pericolose perché in grado di ingannare l’opinione pubblica: prefigurano una giusta esigenza (nel caso delle ideologie: l’esigenza della giustizia sociale, l’abbattimento dei privilegi, eccetera; qui: la stabilità di governo, la semplificazione, eccetera) ma la sviluppano in un esito che travalica violentemente le istanze che ne erano alla base.

Se quindi rimane vero che è necessaria una riforma costituzionale, bisogna concludere che questa riforma costituzionale si dimostra nemica non solo del pluralismo politico e di quello istituzionale, ma anche della stessa capacità competitiva del sistema italiano, determinando un cambiamento nettamente peggiorativo dell’assetto attuale.

Si dice che i mercati ci puniranno se vincerà il “no”: può essere, dal momento che Renzi non ha esitato a infilare l’Italia dentro a questa trappola. Ritengo però che se vincerà il “sì” i mercati si accorgeranno ben presto del pasticcio costituzionale italiano e dei gravissimi costi che determina: la loro sanzione, quindi, non mancherà comunque di farsi sentire. Quello che è urgente è allora che le forze che sostengono il “no” siano in grado di presentare una proposta alternativa sufficiente e minimale di riforma, perché bastano pochi articoli per ridare smalto al sistema costituzionale italiano.

Luca Antonini, autore di questo articolo, è ordinario di Diritto costituzionale all’Università di Padova

@lucaantonini6

Foto: Ansa

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