Ragazzi che ammazzano ragazzi. Che fare?

Siamo tutti sconvolti dall'efferato omicidio di Christopher Thomas Luciani. I social, la droga, la musica violenta. Noi adulti dobbiamo essere come querce, stabili e sicuri

Il parco Baden Powell di Pescara dove è stato ucciso Christopher Thomas Luciani, il 17enne di Rosciano ucciso con 25 coltellate (Ansa)

Chi non è rimasto colpito e scosso dall’omicidio di Pescara? Dalla morte del giovane Christopher Thomas Luciani avvenuta in un parco, il 17 giungo scorso, colpito da 25 coltellate da due suoi coetanei di 16 anni. Le cronache ci raccontano che i tre erano amici, non rivali di bande contrapposte, non appartenenti a gang giovanili che si dovevano contendere il territorio. Ricorda molto la “banalità del male” questo omicidio. Il motivo che ha scatenato l’efferata violenza erano circa 200 euro di debito che l’uno aveva con l’altro.

Senza volersi soffermare sui macabri particolari, colpisce sicuramente il comportamento dell’assassino, o degli assassini che, commesso l’omicidio, sono andati in spiaggia, si sono immortalati in un selfie ed uno dei due si è fatto ritrarre sotto una palma, con lo sguardo fermo, il pugno sul petto e l’espressione fiera. Questo è quel che ci raccontano, per ora, le cronache dei giornali.

Il Gip, confermando le misure cautelari ha scritto che «l’unico vero intento è stato quello di cagionare sofferenza e morte». Un giudizio drammatico, credo non privo di elementi di verità, ma che non può esaurire il giudizio e il compito che un fatto così chiede a noi adulti. Innanzitutto, ci impone di non rimanere spettatori voyeuristi ma di rimetterci in gioco sulla domanda apicale: cosa abbiamo sbagliato? Che cosa non ci permette di capire la posizione borderline di questi tre ragazzi, come di tanti nostri figli?

Deriva nichilista

Se non vogliamo arrenderci allo svilimento a cui può arrivare il senso stesso della vita umana, ci è dato in primo luogo il compito di non dimenticare, di non fermarsi al contraccolpo emotivo, che tra qualche giorno sarà passato e di per sé non scalfirà se non la superficie delle nostre esistenze. Poi verrà messo via, in un angolo della mente, affinché non disturbi troppo le nostre coscienze. Questo fatto deve, invece, costringerci ad approfondire, con il cuore e con la mente, riluttanti come siamo perché questo sappiamo che un po’ ci giudica, quell’immenso disagio giovanile, che sotto diverse forme, possiamo toccare con mano quotidianamente.

Quanti dei nostri figli sono anch’essi vittime (e talvolta carnefici) di questa deriva nichilista, vuota di speranza e di prospettiva, priva del minimo ancoraggio ad un senso del vero che possa offrire loro un argine, una riva cui approdare? Non nascondiamoci: tocca anche noi e le nostre famiglie, non siamo estranei a questa deriva, non siamo al sicuro! Anche i nostri figli spesso ci appaiono indifesi, incapaci di affrontare le difficoltà della vita senza rifugiarsi in scorciatoie che distruggono non solo la vita dell’altro, ma anche la propria.

Quanti nostri figli, cui non è mancato nulla, di buona famiglia, cattolica, benestante, proprio in questo momento, stanno cercando di tacitare il disagio che li caratterizza nell’alcool o nelle sostanze? Noi genitori, adulti, professionisti del sociale, non possiamo non sentirci parte in causa, interrogati e drammaticamente chiamati ad un’assunzione di responsabilità, oltre che interpellati ognuno di noi sulla nostra debolezza educativa.

Tutto, tranne l’essenziale

La nostra generazione, figlia di un percorso storico che ha solcato la seconda metà del secolo breve, ha cercato di offrire tutto, di togliere ogni sasso, ogni inciampo dalla strada dei nostri figli, ogni intralcio che ciascuna giovane vita è costretta, per genesi, ad affrontare, senza accorgerci che crescevamo bambini, ragazzi, giovani del tutto impreparati ad affrontare le inevitabili contraddizioni del mondo e le sue fatiche arcaiche, che ritornano in tutti i tempi, seppur in forma differente. Abbiamo cercato di dare loro tutto, salvo forse l’essenziale.

Possiamo limitarci oggi alle tante analisi sociologiche che dibattono del tema giovanile? No, non possiamo, non ci basta, comprendiamo che non si può liquidare il problema come una questione da esperti, che forse possono contribuire a spiegare il come ma non il perché. Non basta prendere in esame ciò che ha comportato il periodo del lockdown e gli strascichi che a lungo termine stanno ancora incidendo.

Certo, non possiamo eludere il fenomeno dei social, drammatico strumento in cui apparire è diventata l’unica via di riconoscimento, dove nel like si manifesta la trasfigurazione del consenso, il “metro” ultimo per essere “guardati”, per sentirsi vivi. Questa immaterialità sta producendo disagi che non siamo neppure in grado di pronunciare, ma che producono in ragazzini, talvolta in bambini, fragilità profonde, incertezze, inadeguatezze, forme sempre più evidenti di un malessere sociale.

Il problema droga

Ma queste spiegazioni non sono sufficienti. Non risolvono il mio disagio di padre che non sa come affrontare un figlio che si sta buttando via. Non giustificano l’imponenza di dati che certificano come nel 2021, in Italia sono 270 mila i ragazzi tra i 15 e i 19 anni, che hanno assunto almeno una volta nella vita psicofarmaci per cui non è richiesta la prescrizione: più di uno su dieci. Circa un decimo di questi (28 mila) dichiara di utilizzarli frequentemente, ovvero dieci volte o più al mese. Tra i farmaci più diffusi ci sono quelli utilizzati per dormire, migliorare l’umore, dimagrire e accrescere l’attenzione.

Senza contare, il fenomeno sempre più in crescita relativo all’uso delle droghe. “Cocaina rosa” Mdma, ketamina, cannabis e ora droghe sintetiche, come il Fentanyl. I dati del Rapporto europeo sulla droga sottolineano un trend in aumento nel 2024, con la cocaina protagonista di un vero e proprio boom: i residui nelle acque reflue comunali sono aumentati in due terzi delle città. Questo «suggerisce che, con la crescente disponibilità di cocaina, sia aumentata anche la sua distribuzione geografica e sociale», spiegano nel report gli esperti dell’European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction.

In Italia, come si evince dall’ultima Relazione al Parlamento sulle tossicodipendenze e come hanno sottolineato da San Patrignano, l’età del primo contatto con cannabis e droghe sintetiche si è «abbassata in maniera spaventosa, tanto che ormai il 40 per cento delle persone arrivate nell’ultimo anno in comunità ha iniziato prima dei 14 anni, senza fare grandi distinzioni fra una sostanza e l’altra».

Si chiamo “amo” e “bro”

Non c’è dubbio però che la questione di fondo ha a che fare con il cuore di questi nostri figli, un cuore che si è riempito di un clima di indifferenza e di misconoscimento di sé e dell’altro. La violenza, che è elemento presente in ogni essere vivente, non è più in grado di essere governata da una cultura, da un’educazione, dal semplice buon senso. A tal punto che ciò che consideriamo impossibile, diventa possibile, ciò che dovrebbe appartenere alle frange più efferate della criminalità, è diventato, seppur appaia eccessivo dirlo, normale come uccidere un amico, per futili motivi, senza neppure il pathos del rimorso.

L’efferato omicidio di questi giorni non è un caso isolato. Se prestiamo attenzione alle nostre città, ma anche ai piccoli centri di provincia, non possiamo non accorgerci, soprattutto in certe ore della giornata, della presenza di gruppi di giovani senza destinazione o scopo, palesemente smarriti nel cuore, che girovagano come navigatori senza bussola, alla ricerca di qualcosa a cui non sanno neppure dare un nome. Abitano la strada in branchi dove si sorreggono nella connivenza, ma dove dell’amicizia manca la radice profonda. Hanno smarrito l’etimologia, cioè il senso, delle parole: si chiamano “amo” o “bro”, abbreviando amore o brother, fratello, ma è una abbreviazione così corta che non ci sta neppure l’amicizia, che vuole davvero il bene dell’altro.

Stare come querce

Contesti in cui solidarietà e violenza si mischiano tra di loro, nei quali un minuto prima ti picchi a sangue e poi aiuti a rialzarsi, in un ginepraio inestricabile di noia e abbandono, quasi a dar forma e vita ad una canzone “trap”. Musica che, se qualche adulto ascolta anche distrattamente, lascia inorriditi, per la violenza e la brutalità dei testi, incapace di comprendere come questa forma sincopata di espressione possa consentire ai nostri figli si sentirsi vivi e originali. Eppure, anche con questo dobbiamo fare i conti, ben sapendo che è diventata una “forma di riconoscimento” e rappresenta allo stesso tempo una distorsione abnorme della realtà.

Quanto spetta a noi, è compito estremamente delicato. Dobbiamo, anche quando siamo toccati personalmente, guardare in faccia questa realtà, senza fuggire, senza nasconderci in panacee o risvolti autoritari. Dobbiamo imparare di nuovo a “guardare”, ascoltando i nostri figli, anche quando l’alfabeto è distorto. Interrogando il profondo e anche l’inafferrabile del loro cuore. E dobbiamo “stare”, stare saldi come una quercia ben piantata, dalle radici profonde, come una vecchia casa dai muri spessi, sicura e stabile, alla quale si può sempre ritornare. Stare, nel proporre loro ciò che abbiamo sperimentato come buono per la nostra vita. Mai imporre, ma proporre senza timori e senza stancarsi. Perché l’adulto ha la responsabilità di una proposta chiara, con cui il figlio si possa confrontare. Una proposta che sia figlia dell’esperienza e non della morale, da noi ridotta troppo spesso a pretesa o moralismo.

Vero, bello, giusto

Dobbiamo ritornare ad essere capaci di pronunciare, come dice il Vangelo, il nostro “sì, sì”, ed anche il nostro “no, no”, che troppe volte per paura o per comodo abbiamo taciuto. Cedere, dicendo sì a ogni impazienza dei nostri figli, come troppe volte ho fatto io per primo (chi non lo ha mai fatto scagli la prima pietra), legittima quella “dittatura del desiderio” oggi così diffusa, che trascina il cuore nell’abisso della sofferenza, togliendo al desiderio stesso di esercitare quella formidabile funzione maieutica, che conduce al vero, al bello e al giusto, perché è desiderio di infinito, che niente di finito può riempire, se non Dio.

È una grande responsabilità quella che dobbiamo caricarci sulle spalle. Non esistono scorciatoie, demiurghi capaci di assolvere al nostro compito. Non possiamo fuggire o illuderci che la conseguenza di questa profonda opera diseducativa non avrà impatti sociali sul futuro.

Tempo, pazienza e cuore aperto

Al netto dei fatti più eclatanti, come quello di Christopher Thomas Luciani, siamo al cospetto di un’emergenza giovanile che spesso è celata, nascosta dagli occhi del mondo che corre tra commercio e affari, dove una violenza latente è pronta ad esplodere improvvisamente, a meno che non incontri qualcuno capace di guardare, ascoltando con il cuore anche quello che non siamo in grado di comprendere. Ma solo una prospettiva carica di senso e di vita buona può fungere da antidoto alla “banalità del male”.

Non servono leggi d’emergenza, inasprimento delle pene, esperti cui consegnare la nostra responsabilità. Occorre tempo, pazienza, una lunga attraversata nel deserto, con il cuore aperto all’insondabile. Occorre amare i nostri figli dentro drammi che mai avremmo immaginato di dover affrontare, toccando con mano cosa vuol dire amare quanto Dio ama noi, perdonando e sostenendo, correggendo e abbracciando. Occorre amare la verità, anche dentro la paura e l’incertezza, riconoscerla e dirla perché anche loro la possano conoscere e ricordare, e incontrare quando Dio vorrà.

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