R.M.D.B., il caso che ha aperto la strada alla libertà di curarsi a costi ragionevoli

Di Maurizio Tortorella
19 Ottobre 2016
L'epatite C del malato si era aggravata. L’ospedale garantiva una terapia solo dal 2017. In Italia il medicinale necessario per curarlo costa 44 mila euro. In India poche centinaia

ledipasvir-sofosbuvir

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

malati di epatite C dovrebbero fare un monumento a un’avvocata milanese, Daria Pesce. Perché la penalista ha aperto la strada al riconoscimento di un diritto sacrosanto: quello di curarsi importando medicine che costano un centesimo di quelle vendute in Italia. È esattamente questo il caso di R.M.D.B., un milanese malato di epatite C. Il 6 giugno scorso la procura di Roma, alla dogana di Ciampino, gli aveva sequestrato tre confezioni di un farmaco salvavita che il malato aveva ordinato via internet in India, accusando l’uomo di «immissione nel territorio dello Stato italiano di medicinali privi della relativa autorizzazione»: una legge del 2006 prevede per questo reato l’arresto da sei mesi a un anno e un’ammenda da 10 mila a 100 mila euro.

Eppure l’acquisto via internet era l’unica via rimasta all’uomo per curarsi. R.M.D.B. infatti aveva contratto l’epatite alcuni anni fa, e su consiglio del suo medico nel marzo scorso si era rivolto al Policlinico Granelli di Milano. Le condizioni del paziente, però, non erano così gravi da farlo rientrare nella casistica che oggi permette l’accesso ai costosissimi farmaci salvavita (oltre 44 mila euro a confezione) forniti dal Servizio sanitario nazionale. L’ospedale ha garantito al paziente una terapia, ma soltanto a partire dal 2017.

«Indispensabile e insostituibile»
Nel frattempo, però, le condizioni del malato si sono aggravate tanto da rendergli difficile lavorare. Così il Policlinico gli ha consigliato di acquistare i farmaci online. E via internet R.M.D.B. ha comprato per poche centinaia di euro tre confezioni di un medicinale prodotto in India: il Ledipasvir 90 mg, e il Sofosbuvir 400 mg. Quando però il pacchetto è arrivato alla dogana di Ciampino, il pubblico ministero romano Lucia Lotti ne ha ordinato il sequestro. Secondo la procura, l’importazione sarebbe stata effettuata senza preventiva autorizzazione, ed «esisterebbero altri farmaci autorizzati all’immissione in commercio sul territorio nazionale».

R.M.D.B. ha fatto ricorso al tribunale del riesame. L’avvocato Pesce ha chiesto il dissequestro delle tre confezioni, contestando alla procura che la norma del 2006 «contrasta il fenomeno dell’importazione di farmaci destinati a essere commercializzati», non l’acquisto di medicine destinate esclusivamente a un uso personale. R.M.D.B. aveva anche presentato all’ufficio sanità dell’aeroporto di Ciampino una regolare richiesta d’importazione, firmata dal suo medico: là dentro si specificava che «il farmaco non è sostituibile per il successo terapeutico con altri farmaci registrati in Italia» ed era stato ritenuto dal medico «indispensabile e insostituibile per la cura del paziente».

Il fatto che si trattasse di sole tre scatole, inoltre, rendeva evidente che l’importazione non potesse essere finalizzata alla vendita ad altri. «È inconcepibile – ha scritto l’avvocato Pesce nel ricorso – che un cittadino italiano sia costretto a ricorrere all’acquisto di un farmaco all’estero perché in Italia lo stesso medicinale ha costi proibitivi e la sua somministrazione non è garantita dal Sistema sanitario se non in casi-limite». 

Ai primi di settembre, privato delle sue medicine, R.M.D.B. ha deciso di partire per l’India e di curarsi là. Ma subito dopo, a sorpresa, il tribunale gli ha dato ragione. «Il reato – ha deciso il giudice – è solo quello di chi importa medicinali in assenza di autorizzazione per metterli in commercio». Pertanto è lecito importare farmaci «a chi ne fa un uso personale». Il sequestro è stato annullato. E si è così aperta una prima strada alla libertà di cura a costi ragionevoli. Anche con farmaci acquistati all’estero.

@mautortorella

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