Quell’unità che nasce dal martirio

Di Rodolfo Casadei
27 Aprile 2017
Sono pochi, molto divisi e spesso perseguitati. Numeri, scismi, controversie storiche e teologiche dei cristiani del Vicino Oriente nei giorni del viaggio di papa Francesco in Egitto

Egitto cristiani

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Quel che successe più di due decenni fa in occasione del suo primo viaggio in Italia a Roni Rameh, logista libanese di una Ong di cooperazione internazionale, potrebbe succedere anche oggi. Il discorso con un italiano da poco conosciuto va a finire sulla religione. Roni vuole chiarire subito come stanno le cose: «Anch’io sono cristiano come te». Risposta: «Che bello! Quand’è che ti sei convertito?». Vent’anni dopo le cose non sono cambiate tanto: la maggioranza degli italiani continua a pensare che chi parla arabo è naturalmente un musulmano, e che se invece si professa cristiano deve essere un convertito che ha sfidato i rigori della legge o un discendente di arabi che si sono lasciati assimilare al tempo del colonialismo europeo, o magari c’entrano qualcosa le Crociate, visto che un sacco di gente, dal presidente turco Erdogan ai terroristi dell’Isis, continua a tirare fuori questa storia dei “crociati” a distanza di secoli… Che Roni Rameh e altri 12-15 milioni di abitanti del Vicino Oriente siano cristiani perché lo erano i loro avi di diciassette-diciotto secoli fa, che i loro antenati si siano convertiti al cristianesimo quasi tutti prima dei nostri, questi sono fatti storici di cui le masse che applaudono papa Francesco in partenza per l’Egitto non sono, per la gran parte, consapevoli.

Viaggi dei Papi a ripetizione nei paesi della regione e aggressioni jihadiste che hanno permesso alle minoranze cristiane del Vicino Oriente di ritagliarsi uno spazio nei notiziari con storie di sangue sparso e pulizia etno-religiosa hanno cambiato poco le cose. Ignoranza, incomprensioni, cancellazione della memoria storica e paradossi a cascata continuano a caratterizzare i rapporti fra le cristianità d’Occidente e di Oriente. Chi lo sa che nei primi otto secoli dell’era cristiana al soglio di Pietro sono saliti sette papi nativi della Siria? Che ancora attorno all’anno Mille, tre secoli e mezzo dopo l’avvento del califfato, il 40 per cento di tutti i cristiani del mondo viveva nelle terre dell’Oriente islamizzato? Che i grandi concili ecumenici del IV e del V secolo si tennero nelle città dell’Anatolia (Costantinopoli, Nicea, Efeso, Calcedonia) perché nella tarda Antichità il cuore del cristianesimo batteva ad Oriente? Al capitolo ignoranza va ascritta anche la difficoltà che gli europei hanno a distinguere fra le diverse Chiese del Vicino Oriente.

E qui subito si scivola nel capitolo paradossi: tante Chiese distinte per pochi cristiani, sempre meno numerosi. Lasciando da parte i protestanti, nell’area geografica che va dall’Egitto all’Iraq e dalla Turchia alla Penisola arabica si contano almeno 13 Chiese cristiane diverse, ciascuna con la propria teologia, la propria gerarchia e il proprio rito liturgico, 7 delle quali sono in comunione col papa di Roma da più o meno tempo e 6 che rispondono solo al loro proprio papa o a un loro patriarca. Paradosso nel paradosso, i cristiani egiziani da soli rappresentano probabilmente i due terzi di tutti i cristiani sparsi fra le 13 Chiese dell’Oriente.

Diciamo probabilmente perché il problema quando si parla di loro è la determinazione della loro consistenza numerica: secondo le autorità ecclesiastiche locali sono 12 milioni come minimo; secondo gli islamisti, che li hanno in antipatia, non superano i 4,5 milioni; ma gli studiosi di scienze religiose parlano di 7-8 milioni residenti in Egitto. L’indeterminatezza del numero dei copti incide più di altre indeterminatezze (non sono veramente affidabili nemmeno le cifre che riguardano i cristiani libanesi e quelli siriani) sulla stima totale dei cristiani nel Vicino Oriente: 12 o 15 milioni? Dipende dalle fonti. Coi numeri gli orientali hanno un rapporto molto personale, ha confidato un giorno il patriarca dei caldei (cristiani iracheni) Louis Sako.

Dunque il papa va in Egitto, dove i cattolici sono 272 mila, ma la stragrande maggioranza dei cristiani presenti non lo sono: sono copti ortodossi. Uno sente “ortodossi” e crede di aver capito, associa la parola ai cristiani russi e al loro patriarca di Mosca che per la prima volta nei secoli ha incontrato il papa di Roma nel febbraio dell’anno scorso a Cuba; oppure pensa a quel nobile decaduto che è il patriarca di Costantinopoli, nominalmente leader spirituale di 250 milioni di cristiani nel mondo, rivalutato da Paolo VI e da tutti i suoi successori dopo 900 anni di scisma, ma sempre asserragliato nel suo cadente palazzo al Fanar di Istanbul, dove i suoi cristiani greco-ortodossi sono rimasti 3 mila in un paese di 78 milioni di abitanti. E invece no: i copti d’Egitto si definiscono ortodossi ma non dipendono dal patriarca di Costantinopoli o da Mosca. Si sono staccati sia da lui che da Roma all’indomani del Concilio di Calcedonia del 451, quello convocato da papa Leone Magno per contrastare l’eresia monofisita, cioè la dottrina secondo cui Cristo era vero Dio ma non vero uomo.

PAPA egitto
Papa Francesco con Tawadros II in Vaticano nel 2013

Riti, canoni e vicariati
La maggior parte dei cristiani egiziani, vescovi e fedeli, non accettò il canone calcedoniano che affermava esservi in Cristo due nature che convivevano senza confondersi, ma nemmeno la dottrina monofisita dell’unica natura divina che avrebbe assorbito quella umana di Cristo. Per loro umanità e divinità di Cristo erano unite in un’unica inscindibile natura: questa posizione è detta miafisita. Aderirono a questa posizione la Chiesa siriaca del patriarcato di Antiochia (oggi comunemente chiamata siro-ortodossa) e la Chiesa apostolica armena, che è ancora oggi la Chiesa che riunisce la grande maggioranza dei cristiani armeni. Bisogna dunque avere chiaro che la proliferazione di Chiese nel Vicino Oriente è il prodotto delle controversie cristologiche del V secolo. Che avevano prodotto storiche divisioni già prima del Concilio di Calcedonia: il Concilio di Efeso del 431, convocato per condannare la posizione del vescovo Nestorio che non voleva riconoscere a Maria il titolo di “madre di Dio” e che affermava che in Cristo convivevano non due nature, ma due persone, non era stato accettato da tutti. La Chiesa che allora aveva il suo centro in Persia, e che poi si sarebbe spostata nell’Iraq settentrionale, fece proprie le tesi di Nestorio e si staccò da Costantinopoli e da Roma. Una parte di quella Chiesa si è riunita a Roma e ha riconosciuto il suo primato nel 1553, dando vita alla Chiesa cattolica caldea, mentre restano eredi della tradizione nestoriana la Chiesa assira orientale e l’Antica Chiesa d’Oriente.

Dunque il Grande Scisma del 1054, quello che vede le reciproche scomuniche fra papa di Roma e patriarca di Costantinopoli, è stato soltanto l’ultimo di una serie di scismi che hanno modellato la fisionomia del cristianesimo in Oriente. Per sei secoli di fila Roma ha perso cristiani in Oriente, e non solo a causa dell’espansione dell’islam a partire dal VII secolo. Poi, fra il Cinquecento e l’Ottocento, cioè in epoca di Impero Ottomano, ha cercato di recuperarli, ma il risultato è stato piuttosto quello di dare vita a Chiese orientali cattoliche di rito proprio, parallele a quelle pre-esistenti: in Egitto accanto ai copti ortodossi ci sono i copti cattolici che hanno la stessa identica liturgia ma riconoscono il primato del Papa, in Siria, Libano e Palestina ci sono i greco-cattolici e i greco-ortodossi, in Iraq, Siria e Turchia i siro-cattolici e i siro-ortodossi, nei paesi dove vivono gli armeni c’è una maggioritaria Chiesa apostolica armena e una minoritaria Chiesa cattolica armena.

Solo i maroniti (la Chiesa di Roni Rameh) del Libano, che hanno accettato a suo tempo il canone calcedoniano e poi si sono schierati col Papa ai tempi del Grande Scisma, non hanno “concorrenti” ortodossi. In più, nel XIX e XX secolo Roma ha seminato diocesi e vicariati latini in tutto il Vicino Oriente. Una utilissima sintesi di tutto questo si può trovare in un servizio di Martino Diez sul n. 22 di Oasis.

L’Isis, ma non solo
Tutto questo attivismo non ha rialzato le sorti del cristianesimo nel Vicino Oriente: nel 1910 i cristiani di tutte le denominazioni rappresentavano il 13,6 per cento della popolazione della regione, oggi sono solo il 4 per cento e la tendenza alla flessione permane. Il genocidio degli armeni e degli assiri fra il 1914 e il 1920 ha assestato un colpo decisivo alla dimensione demografica del cristianesimo nel Vicino Oriente, ma altrettanto ha contribuito il fenomeno migratorio. Nel 2010, quando la guerra civile internazionalizzata siriana non era ancora esplosa e l’Isis con le sue politiche di pulizia etno-religiosa non aveva ancora fatto la sua comparsa in Iraq, i cristiani siriani erano già diminuiti dal 9,7 per cento della popolazione del 1970 al 5,2 per cento, mentre quelli iracheni erano scesi dal 3,7 per cento del 1970 all’1,4 per cento. Questo accadeva in paesi con una tradizione politica laica, noti per riconoscere i diritti di cittadinanza agli appartenenti alle minoranze religiose (quelli politici in un’ottica liberal-democratica non erano e non sono tuttora riconosciuti quasi per nulla in tutta la regione, con la parziale eccezione di Israele e Libano).

cristiani medio oriente

In tutto questo si inserisce un altro, duplice paradosso: mentre i cristiani autoctoni emigrano, cristiani di altri paesi immigrano nella regione, e vanno a vivere nel paese meno tollerante dal punto di vista religioso e in alcuni altri dove le chiese locali erano inesistenti. Stiamo parlando dell’Arabia Saudita, monarchia teocratica che proibisce ogni religione diversa dall’islam wahabita, eppure ospita 1 milione e 200 mila cristiani, e degli altri Stati della penisola arabica, dove le chiese cattoliche aperte al culto si contano sulle dita di una mano: in Bahrein i cristiani sono 180 mila, negli Emirati Arabi Uniti 1 milione, nel Kuwait 390 mila e nel Qatar 240 mila (stime del Pew Research Institute).

Si tratta di immigrati filippini, sudcoreani, indiani, ecc. che risiedono permanentemente in questi paesi fino all’età della pensione, quando dovranno tornare nei paesi d’origine perché gli Stati della penisola arabica non concedono la naturalizzazione agli immigrati neanche dopo 30 anni di residenza, con rare eccezioni riservate ai musulmani. Curiosissima la situazione di Israele, dove l’emigrazione di cristiani di lingua araba viene compensata dall’immigrazione di cristiani russi al seguito di ebrei russi che diventano israeliani in forza della legge del ritorno.

Si suol dire che le persecuzioni degli ultimi cento anni hanno riavvicinato fra loro le Chiese d’Oriente e queste ultime con la Chiesa di Roma, ma questa non è l’unica motivazione dell’inizio di ricomposizione che si osserva da cinquant’anni a questa parte. La scomparsa degli imperi del passato lontano e del passato recente (bizantino, persiano, califfato arabo, ottomano, coloniale francese e coloniale britannico) ha cambiato molte cose.

Tutti gli storici della Chiesa sono concordi nel dire che gli scismi del passato non hanno avuto cause esclusivamente teologiche, e che dietro alle controversie cristologiche ci stavano rivalità personali, ambizioni locali e soprattutto motivazioni politiche. Gli egiziani non sopportavano il giogo bizantino, e questo non è un motivo secondario del loro rigetto delle conclusioni del Concilio di Calcedonia; la Chiesa assira d’Oriente, a cavallo fra Persia e Mesopotamia, che diventerà nestoriana era motivata a distinguersi da quella di Bisanzio, organica all’impero romano, per non essere accusata di slealtà verso il trono sasanide.

Non è un caso che negli ultimi quarant’anni – cioè in epoca post-imperiale e post-coloniale – si siano accumulate le dichiarazioni comuni della Chiesa cattolica romana e delle Chiese orientali da essa separate. Nel 1973 Paolo VI e papa Shenouda III hanno firmato la prima intesa teologica fra cattolici latini e copti ortodossi, poi completata nel 1988 con la dichiarazione di Giovanni Paolo II e ancora Shenouda III; papa Wojtyla ha firmato dichiarazioni teologiche comuni che hanno messo fine a secoli di conflitti dottrinali con i siro-ortodossi (1984), con la Chiesa assira orientale (1994) e con gli armeni apostolici (1996). Le scomuniche reciproche fra Roma e Costantinopoli erano già state revocate il 7 dicembre 1965.

papa SHENOUDA

L’uomo della strada certamente si chiederà: ma se le dispute dottrinali sono risolte, e le scomuniche sono revocate, e sul terreno i cristiani spesso si ritrovano uniti nell’ecumenismo del martirio, perché le Chiese restano separate? La separazione oramai riguarda solo la questione del primato del Papa romano. Le Chiese orientali non vogliono riconoscere poteri gerarchici e disciplinari al successore di Pietro nei riguardi di tutte le Chiese del mondo.

Forma e sostanza
Papa Francesco, fautore di una maggiore autonomia dei vescovi e delle Chiese locali in ambito latino, sembrerebbe l’interlocutore ideale per una ricomposizione delle Chiese di Oriente e Occidente all’insegna di un depotenziamento delle prerogative romane. Ma non bisogna dimenticare che ricomposizione formale e unità sostanziale saranno sempre due cose diverse. Basta guardare al mondo degli ortodossi calcedoniani: nonostante il primato del patriarca di Costantinopoli sia stato nei secoli molto relativizzato, 50 anni di sforzi non sono bastati a convocare il primo Concilio panortodosso della storia, boicottato da russi, serbi, bulgari, georgiani e antiocheni. Da Oriente arriva il messaggio che l’unità ecumenica si compie principalmente nel martirio. Canonizzare come santi comuni a tutte le Chiese i martiri che le varie Chiese e comunità cristiane d’Oriente (cattoliche, ortodosse e protestanti) hanno avuto dall’inizio del XXI secolo sarebbe un bel passo sulla strada dell’unità sostanziale. 

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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